Vergato (BO), 18 giugno 2019
Il problema è che non ricordo mai il nome. Troppo preso dall’ansia da prestazione delle presentazioni, non faccio mai caso a come uno si chiami.
Il custode del centro sportivo di Vergato ha i baffi folti e grigi che gli coprono il labbro e gli danno l’espressione sorniona di un castoro. Ottant’anni splendidamente portati, visto che ne dimostra sessanta con la schiena e venti con lo sguardo. Il lavoro onesto, la vita sana e quarantatre maratone in vita sua, dice. Con i miei venti km al giorno devo sembrargli un poveretto, ma non per questo mi nega la sua storia. Il nonno nelle miniere in Sardegna, il babbo in quelle di Bressanone, morto di silicosi come in un romanzo di Dickens a nemmeno cinquant’anni. Del suo di lavoro non parla, ma ricorda la guerra e i bombardamenti ai quali poi preferisce il correre e il giocare a tennis.
Mi trovo in imbarazzo a chiedergli di utilizzare la doccia, fosse mai possibile.
Mi guarda come un alieno. La struttura è comunale e quindi sempre aperta. Se voglio buttare il sacco a pelo nello spogliatoio per la notte non ci sono problemi, basta che non faccia casini. C’è corrente e acqua calda. Adesso lo guardo io come un alieno. Mi piglia per il culo, sicuro.
“Se si può dare una mano…” dice alzando le braccia e facendole ricadere. Ecco. Se si può dare una mano.
Sarà pure un caso eh, ma sono a quattro passi da Bologna, in quei comuni e frazioni dove il Pci dei tempi d’oro faceva percentuali che manco a Vladivostok. Dove un modo di vivere solidale si professava e praticava senza grossi fronzoli, per motivi sociali e umani e non religiosi o dottrinali. Dove le istanze morali di una comunità incontravano quelle di un credere politico e non viceversa. E dove l’Enrico si stimava – e si stima ancora – per l’uomo che era e per le idee che difendeva, non per le promesse che faceva. È vero, sono un maschio di razza caucasica e parlo italiano con una certa disinvoltura, ma non ci vuole molto per capire che al custode interessa davvero poco.
Anche con il caldo che strozza il paese, il capitano capitone non molla l’osso e ringhia astio a vanvera forte di qualsiasi mezzuccio razzista. Solletica il ventre molle di un popolo storicamente credulone, con argomenti facili. E in molti gli vanno dietro, si sa, l’abbiamo già vista sta roba. Incalza con la menata del chiudere porti (da sempre simbolo di riparo) manco fossero la saracinesca del suo garage, addossandosi però un dovere morale: l’interesse dei suoi sessanta milioni di figli, che di conseguenza la penseranno per forza come lui. Paraculo.
È inutile dire che preferirei essere orfano piuttosto che figlio di un prepotente e arrogante.
Vorrei invece il custode del campo sportivo comunale di Vergato se non come babbo, almeno come nonno, visto che senza grande clamore offre a gratis il vero stato dell’arte, difendendo un certo modo di voler stare al mondo che per fortuna non è ancora di pochi. Piccole comunità fatte di persone ragionevoli, in grado di aiutare e fare il proprio se necessario, mosse dall’umana comprensione. Che alla forza muscolare preferiscono il ragionamento e se serve la compassione.
Una mano non si nega a chi è in difficoltà, senza pretendere nulla in cambio. Forti dell’ingenua saggezza popolare dell’oggi tocca a te, domani a me, ma non stupidi da non poterla adattare a quella scala globale che accorcia inarrestabile tempi e distanze del pianeta.
Darsi la mano vuole anche dire suggellare patti fra uomini onesti.
Ci salutiamo così, con una stretta di mano e ci siamo capiti. A buon rendere. Se non a lui, a qualunque altro rappresentante della specie ne dimostri bisogno.