Fiano Romano (RM), 30 Settembre 2020
19ª tappa Oltre Tevere, Nazzano – Monterotondo, 26 km
Poco prima della partenza mi è capitato di dover scrivere e registrare alcune puntate di un podcast sulla fotografia a Milano. Breve analisi formale delle grandi immagini della storia e considerazioni di linguaggio. Fotografie non scelte da me.
Non poteva che cascarci di mezzo il celebre scatto della ragazzina che fugge dal napalm, ça va sans dire. Nick Út di Ap, Viet Nam 1972.
Fiumi di parole scritte, centinaia di considerazioni più o meno riuscite rendono difficilissimo non scadere in retorica più o meno buonista. Nel pacifismo di maniera, insomma.
Sarà per questo (via goffa all’originalità) che sono finito per soffermarmi sulla parte meno visiva della questione, riflettendo sul silenzio delle fotografie. O sul loro suono. Come bianco o nero.
Perché se è vero che per loro stessa natura sono prive di audio, quello che potrebbe esser inteso come limite, dà abbrivio e nutre le praterie dell’immaginazione sonora.
Se è -forse- lecito pensare la fotografia come un frame singolo di uno scorrere (temporale) di immagini davanti agli occhi dell’autore, è evidente che il tema del congelamento di suono si fa più astratto. E più complesso.
Immagino come ogni fotografia scattata potrebbe legarsi a un suono preciso in timbro, potenza e frequenza. Una nota su ottava definita. Magari in alterazione, diesis o bemolle. E della stessa durata dello scatto. Secondi o frazioni di secondo, come per l’otturatore. Uno fratto.
E invece non è così. La foto di Út è un urlo prolungato nell’orecchio.
L’esecuzione sommaria da parte del generale Loan (1968) è lo scoppio di uno sparo alla tempia che riecheggia in città. O come lo si può immaginare. E via discorrendo.
Ma perché dire ciò? Perché Claudia si unisce alla truppa di Oltre Tevere per fotografare all’attacco di una tappa cruciale. Sia per i piedi che per l’occhio. Nel momento in cui apriamo la porta di un’altra stanza.
Abbandoniamo il bucolico per il conurbato delle architetture, sintomo dell’inurbato delle persone.
Periferie e zone industriali contigue che sfumano una nell’altra senza soluzione di continuità.
E il verde che per definizione tecnica si fa arredo urbano, al pari di una panchina o di un lampione. Il trionfo dell’aiuola.
Nessuna traccia di sentiero. Nessun percorso al riparo dai motori a scoppio. E lungo il Tevere non si cammina, è inaccessibile. C’è la Tiberina però. Autostrada di differente origine e natura. Farsela andare bene.
Doveva succedere, ma è sempre difficile immaginare il momento preciso in cui questo avverrà.
C’è un viale alberato per Monterotondo dove rischiamo di arricchire le collezione di Padre Pio sul cruscotto di un camion lanciato ai novanta.
Le zone industriali sono da scivolo per la praticità del cammino che rovina in qualche modo verso un basso dove il pedone viene inteso come intralcio. E girare alla larga, please.
Ma non per forza per il praticare la raccolta di indizi visivi. Che se documentazione deve essere, documentazione sia.
Ogni fotografo al mondo subisce, o ha subito, il fascino dell’architettura industriale. Della periferia, del sahel urbano. Un classico. Il modo prepotente di riempire lo spazio senza mezzi termini e in maniera scenografica. La nascita di contrasti spiccati fra naturale e non. L’immondizia irrinunciabile, companatico.
Per non parlare di abbandono e incompiuto. Poetica di quello che era e che non è più. E per l’occhio più riflessivo, di quello che poteva essere.
Il suono delle nostre immagini muta con il mutare dei soggetti. Il paesaggio sonoro alimenta e influenza al contempo il modo di guardare di chi scatta. E per lo spectator, il modo di fruire immagini, di intenderne il contenuto.
Il parcheggio di tir abbandonati mezzo distrutti lungo la strada ci distrae quasi un’ora.
Le fotografie strillano di freni tirati, muletti ronzanti. Operai al lavoro.
È la prima volta da quando siamo partiti.
In un bar lungo la statale due signore ci invidiano. Che bravi che siete.
L’idea di arrivare fin lì per un caffè a piedi da casa, nemmeno le sfiora. Quanto piacerebbe anche a noi camminare.
Il ricordo di essere pedoni prima che automobilisti, si perde lontano nella loro infanzia.
E che ogni pedone non sia per forza automobilista, nemmeno intralcia una quotidianità intrisa di accadimenti urbanistici deplorevoli.
Ci benedicono mentre riprendiamo la strada.
Superiamo un cavalcavia costruito sul quale non passa nessuno. Non se ne capisce il perché, poi sì.
Si esaurisce per consunzione. Finisce nel nulla di uno sterrato fra i campi. Su un lato zolle rigirate, sull’altro pecore e aironi guardabuoi.
I paesaggi cambiano nuovamente.
Ci fermiamo un attimo a guardare il silenzio. Claudia tira un sospiro di sollievo.