Riserva naturale regionale Nazzano, Tevere-Farfa, 25 Settembre 2020
Giorno di riposo
Si alza un pochino il gomito. Ce lo dobbiamo. Diciotto giorni di marcia, passo e tappe da legionari. Fino qui nessun problema. Umore alto e nessun incidente, tiè!
E alla facciaccia di chi inverdisce davanti al meteo dei telefonini senza manco provare ad annusare il vento, nemmeno una goccia d’acqua. Giusto due gocce due, che rinfrescano in mezzo alle distese d’erba medica e sorgo rosso, a perdita d’occhio lungo il Tevere.
Negli anni, a chi guarda preoccupato il cielo la mattina, ho imparato a dire “Noi andiamo, che intanto il cammino aggiusta”.
E anche questa volta, la magia si compie.
Le nuvole galoppano bianche e grigie, fanno compagnia. Anzi.
Arrotondando lo sguardo su un paesaggio che sembra ingrassarsi in forma e di colore.
Prima sera di una pausa di quattro giorni. Perché la cosa funziona così.
Uno va lento apposta per fottere le rogne della vita che infatti lo superano a destra senza sfanalare. A palla di cannone. Ma poi sono furbe. Rallentano pure loro e aspettano.
Mettono su un posto di blocco. E non si scappa. E mi tocca salire a Milano per lavoro. Uff.
Ma anche qui: normale amministrazione. Niente di preoccupante. Ri-anzi.
Giorni giusti per rifiatare, fare il punto, riflettere, interiorizzare tutto il visto. Tutto l’accaduto. Sistemare appunti e fotografie. Riallineare testa, pancia e cuore.
E alzare un po’ il gomito, of course.
Si parla di Tevere ovviamente. E di Roma. Seduti a tavola, ormai a 40 km da lì, ospiti delle splendide Aurora e Alessandra dell’ecoturismo e del loro vino rosso aspro. Immersi nel cuore della riserva naturale Tevere Farfa. Due cavalli sbuffano fuori nel buio.
Marco riflette sul fiume. E riflette bene. È di quelli che parlano lentamente. Si prende il tempo per essere certo di non di stoltezze avventate. Merce rara di questi tempi. Soprattutto per la mia logorrea odiosa.
– Il Tevere in realtà è un paesaggio mancato. E pure atipico – dice – Le grandi capitali sono riuscite a interiorizzare il proprio fiume, farlo diventare in qualche modo contemporaneo –
Non è solo questione di bancarelle o iniziative culturali. O di piani urbanistici e speculazioni.
È più profonda la questione, radicata nella quotidianità di una comunità. Antropologica, etnografica. Di simbologia necessaria ma sottratta.
– I romani pare l’abbiano voluto dimenticare, nasconderlo –
E a ben pensare questo atteggiamento è memetico. Ne influenza l’intero corso.
Per questo sono e siamo qua. Indagare un territorio che è “vago”. Un parente di cui un po’ ci si vergogna senza una ragione precisa. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.
La parte più lunga del fiume, quella non urbana, è dimenticata, vittima di ingiustizia.
In effetti il Tevere capitolino è più un gradino. Un inciampo. La profonda rotaia di tram dove non infilarsi con la ruota. Sotterrato in basso per non deviarlo. Imbrigliato in bastioni militareschi da più di un secolo. Cristallizzato nel tempo come presenza discreta, scenografia dipinta per una buona fotografia turistica da sopra uno dei ponti. Che ne cuciono le sponde.
La storia è nota. Un attempato Garibaldi, che meno epico rispetto ai tempi andati, da neoeletto deputato del regno dichiara guerra totale al fiume. Lo vuole deviare, deve andarsene ad est con il cugino Aniene, toglierlo di mezzo e farlo dimenticare alla capitale. Simbolo di esondazione, di palude. Umidità insalubre indegna del nuovo corso del neonato paese. Di un modernismo che avanza a marce serrate, foriero di una tecnologia salvifica per un’umanità che si galvanizza nella costruzione di canali mastodontici in giro per il mondo.
Ma poi perde. Non ci sono i soldi, problema antico pare.
E vince il travertino in blocchi bianchi. Vince l’ingegnere Raffaele Canevari. Il sistema fognario integrato all’interno dei bastioni risulta la carta definitiva per chiudere la partita.
8000×12 di muro fanno un bel po’ di metri quadrati.
E pure due bei fiumi di merda incanalata che corrono allegri a fianco del Tevere, senza il bisogno di essere troppo celebrati. Senza che la cittadinanza se lo debba ricordare.
Ma eccolo lì, in sofferenza il Tevere. Adatto per parlare di nutrie, nel sentire romanesco, molto più che di Enea e di miti fondatori. Un Padre Tevere de-deizzato.
Come appunta bene Marzio G. Mian “La nuova Italia nasce con un parricidio sulla coscienza. È stato allora, direbbe Virgilio, che il dio Tiberino s’è tuffato per l’ultima volta in se stesso e ha dimenticato la sua città”
Anche se in barba alla poesia, il problema delle esondazioni che affliggevano Roma è stato però largamente posto sotto controllo dopo l’ultima disastrosa del 1870. Con il Papa pronto a gridare alla punizione divina per i nuovi regnanti.
Non lo si ricorda mai abbastanza. Preferendo piangere il perduto che non ringraziare per l’avuto, in un paese che ad ogni autunno è abituato a trovare nel dissesto idrogeologico, il metro nazionale della propria incapacità, della cialtroneria amministrativa e politica che lo affligge da un secolo e mezzo. E per gridare allo scandalo.
Dopo i bastioni, le dighe. Dagli anni ‘50 in avanti.
Inevitabile l’impatto ambientale, e il gioco è tutto per tecnici competenti in eterno bilico fra dotti pro e contro per opere del genere.
A Nazzano, dove il Farfa si getta in Tevere, il bacino artificiale è di carattere acquitrinoso, riserva naturale protetta. Incantevole, a pochi passi dalla capitale. Un ecosistema delicato, rifugio per flora e fauna sonnacchiose a disposizione dei visitatori, per una passeggiata fra sentieri ben mantenuti.
Dopo una serie si strette anse, la velocità del fiume è minima. Le sponde sono larghe, coltivate a puntino. Il Tevere può allargarsi di molto se ne ha voglia. Sembra dimenticare il carattere torrentizio che lo distingue da altri grandi fiumi italiani.
Ed è ben diverso da quello a cui sono solito pensare, quello romano. Intorno alla tavola ne conveniamo tutti.
È l’effetto “imbuto” dei bastioni che lo fa tornare nervoso.
Quasi fosse obbligato ad adattarsi suo malgrado alle velleità cittadine. Ai ritmi serrati che si convengono ad una metropoli.
Fosse per lui continuerebbe a starsene tranquillo ad assecondare la propria natura, e magari Roma sarebbe potuta diventare un’oasi a sua volta. Aironi, martin pescatori e folaghe. Chissà.
Questo penso prima di addormentarmi, mentre l’asinello Edoardo raglia ancora una volta sul retro.