Roma, giovedì 08 Maggio 2014
– 43 giorni alla partenza
Pochi giorni fa un piacevole e imprevisto incontro mi ha dato la possibilità di
mettere in chiaro una cosa che mi rodeva da un po’.
Non me ne ero nemmeno accorto.
Durante la pausa di uno shooting persi per le campagne romane, un noto
giornalista musicale appassionato di rock mi racconta le sue prime giovanili
esperienze lisergiche. Inevitabile che si finisca sull’argomento. Da Dylan che
offre il primo cannone all’imberbe John Lennon, passando per i Rolling Stone
che sono dei mostri sì, ma mò son cinquant’anni che non cambiano una scaletta o
un arrangiamento e potrebbero provvedere al posto di cascare dalle palme e
fracassarsi la testa con tutto quello che gli paghiamo di biglietto.
Lui e la fidanzata di allora, ora nota presentatrice, si calano e lui, da sempre
e rinomatamente negato per ogni sorta di arte figurativa, armato di pennarelli,
cartoncino, matite e visioni caleidoscopiche, comprende quale sarà la sua
strada: il pittore. Ovvio. Se non il pittore, almeno l ‘artista in senso lato.
Come non averlo capito prima.
Passa ore piegato sulla neocappella Sistina . Parole sue. Roba da far tremare i
polsi. Finalmente il futuro gli è chiaro. E’ sempre stato lì a portata di mano.
Sacro Lsd, grazie.
Il risveglio uccide sogni e incubi, e lui, corre al tavolo pronto per iniziare
il suo giro di gallerie che faranno a cazzotti anche solo per poter essere
piccola parte in causa nella decisiva svolta della storia dell’arte
novecentesca. Anche solo per esserci, insomma.
Sul tavolo un piccolo sgorbio multicolore occhieggia nell’angolo di un grosso
foglio stropicciato. Uno sgorbio, parole sue.
Et voilà. Carriera finita. E addio Moma. Addio New York.
L’espressione della faccia nel raccontarlo, ma soprattutto la delusione ancora
viva nella voce e lo scintillio malinconico negli occhi a trent’anni di
distanza, mi hanno fatto letteralmente spaccare di risate. E non me ne vorrà,
spero.
Ma che spunto di riflessione cretino è? E’ sulle delusioni. O meglio, una
delusione.
Quando la mia mente obnubilata da iperteso e stressato da lavoro ha cominciato
a partorire la balzana idea del viaggio a piedi nel quale or ora mi cimento, ho
cercato di verbalizzare e trovare un qualche tipo di sponda intellettuale, se
non di partecipazione attiva mediante confidenze agli amici più cari e vicini,
confidando, va da sè, in grida festanti e complimenti a rotta di collo
accompagnati da maschie pacche sulle spalle. Abbracci commossi e non ti
preoccupare di nulla, ci siamo qui noi. Manco fossi Max Pezzali.
Oltre le già note raccomandazioni di mia madre (…tu stai attento) ho
collezionato invece una lista di reazioni impreviste fra cui tre a caldo,
meravigliose, da parte di Alvaro, Ale, e Michela.
(E no, non dirò chi ha detto cosa. Per amor della privacy e perché poi mi
denunciano pure per diffamazione)
uno) “A me puzza di roba cattolica”
due) “Grande! Come Forrest Gump!”
tre) “Bello, basta che non lo fai a nome dell’agenzia” (l’agenzia che
dirigo. NdA)
Ma come? Non vi entusiasma il mio progetto? Non è la nuova cappella Sistina?
Faro sulla via per gli avventurieri di ogni risma? L’oasi nel deserto per chi é
perso? Non sono forse io il nuovo Werner Herzog che vi onora delle sue
confidenze?
Ingrati. Non capite ‘na ceppa.
Ecco delusione e scintillio negli occhi. Voglia di rivincita, di rivalsa. Vi
farò vedere io se i posteri non narreranno le mie gesta. Piazze intitolate.
Foto sulle enciclopedie “Pietro e il suo leggendario bastone in cammino
verso Gambassi Terme ”. Niente cognome che intanto tutti sanno di che si
parla.
Non so come abbia reagito il mio nuovo amico, pittore fallito e giornalista
riuscito. Sicuramente si sarà fatto una risata e si sarà rimesso a fare i fatti
suoi e magari a scrivere. E gli è pure andata bene.
Io ho reagito così. Un po’ ferito nell’orgoglio, si potrebbe dire.
E invece, invece.
E invece hanno ragione loro, Alvaro, Alessandro e Michela.
Perché dovrebbe anche solo interessargli di striscio la cosa?
Le loro considerazioni, su diversi aspetti della faccenda, sono più che lecite
e la mia, forse, è arroganza fuori luogo. Chissà.
Però delle risposte le posso dare. O degli appunti. Meglio forse. Delle
considerazioni per chi vorrà leggerle.
Non è un gesto cattolico o religioso. E’ un gesto spirituale se proprio si
vuole utilizzare questa chiave di lettura, e non è un caso quindi che i pellegrinaggi
siano sempre stati parte integrante dei grandi monoteismi essendo essi sempre
contigui all’argomento spirito e affini.
Roma, Santiago, Gerusalemme, La mecca, Medina. Tanto per citare quelle
famose…
Ma non bisogna confondere i due aspetti. Camminando si è semplicemente uomini.
Nel senso primo del termine.
Spostarsi, deambulare, muoversi acuendo i cinque sensi e godendo di ciò, e il
tutto non può che riportare un equilibrio, una centratura tra l’io interiore e
l’esteriorità come la percepiamo. Molto retorica new age, mi sa. Ma questa
credo sia la spiritualità in ballo. Il respiro cambia e la percezione del tempo
pure. Il tutto, a quasi tutti, permette una maggiore lucidità, rendendo la
mente abbastanza sgombra per cercare di avere qualche scarto di crescita, in
qualunque contesto uno lo stia cercando. (E non voglio parlare dei miei, che
noia) Ma per questo spesso si parla di ricerca spirituale. Il cammino può
essere una via di ricerca. Sì.
E poi, sì, esattamente. Come Forrest Gump. L’amabile ragazzetto yankee
ritardatello che alla fine è un po’ tutti noi e che può opporre solo la sua
ingenuità e la sua semplicità di fronte le grandi questioni della vita.
Soprattutto di fronte alla morte e l’amore.
Dopo le brutture della guerra fa quello che l’istinto gli suggerisce. L’unica
cosa che gli viene da fare e che sa fare senza fronzoli. E parte a correre. Poi
cosa ne segue ce lo racconta il film, ma di suo, la cosa, l’ho sempre trovata
molto poetica.
E Forrest aiuta anche per il terzo aspetto. Per chi si cammina. Il camminare fa
parte di un percorso, personale e intimo. E’ un gesto catartico che non si
addice sempre e per forza a tutti. Anzi. E io, non posso camminare per nessun
altro se non per me stesso.
I viandanti vengono spesso intesi come dei bizzarri un po’ spostati e
camminando in questi miei anni, devo dire che di personaggini da ricovero ne ho
già collezionati parecchi, in effetti, ma chi cammina è accomunato a chi
cammina. Nello sforzo, nella fatica e nel piacere. Nel vedere la meta lontana
avvicinarsi. E dal contare i passi. E dal fermarsi e contemplare. E la luce sta
cambiando. E l’ombra dell’ulivo si allunga sul prato ma poi sparisce per una
nuvola passeggera. Ci capiamo fra di noi anche se ad oggi siamo ancora una
piccola cerchia, ma in continua crescita.
Potrei ammantare questo mio viaggio di significati che non ha e non sono. Alla
fine mi rendo conto di mio di essere un perfetto esempio di maschio bianco
trentacinquenne middle class sfibrata da italica crisi. E a pensarci bene, sì,
potrei fare quello che tanta altra gente dovrebbe fare. Fermare tutto il resto
un attimo e camminare, per opporre un po’ di semplicità e ingenuità allo schifo
quotidiano di un paese in costante declino di sapore barbarico. E magari
provare a spiegare agli altri come farlo e perché. Ad essere dotti si potrebbe
scomodare Latouche, la decrescita felice e il vivere slow.
Ma non posso camminare per nessun altro se non per me stesso e questo oggi mi
permette di fare un ulteriore passo verso quello che alla fine, il camminare mi
ha insegnato e che ritengo essere uno dei sensi ultimi del lasciarsi vivere:
essere persone giuste.
Quindi per i miei tre amici cari: non posso che ringraziarvi per la vostra
onestà e la vostra intelligenza. Come sempre.
Sono stati ottimi spunti di riflessione.
Ove servisse, vi prego di voler sopportare ancora i miei piccoli, stupidi, ma
innocui, scatti di orgoglio.