Poggio Rusco (MN), 24 Giugno 2019
Da Mirandola a Revere per 25 Km
Poggio Rusco è uno di quei posti dove l’attrazione più importante è costituita dal cimitero comunale. E dove The walking dead sembra una puntata di Love Boat. Sotto i portici, tra una jeanseria (???) alla moda e un onoranze funebri che probabilmente fa affari d’oro, mi fermo al bar per un succo di frutta. Mentirei se negassi il mio stupore nel trovare a servirmi una famiglia cinese al completo, mamma, babbo, figlio e nonna. Molto gentili. Ni hao, gli dico e sono più stupiti di me. In effetti è un po’ che non mi fermo in un bar gestito da italiani, e nessunissimo problema figuriamoci, ma un paio di riflessioni se la chiama dai, visto che è afferente la mia scarsa conoscenza del mondo a questo punto, e cioè: le famiglie cinesi non sono solo a Paolo Sarpi o all’Esquilino, anzi. (Ma dai) Però però però. Sarà questa la famosa sostituzione etnica di cui si sente sblaterare spesso e volentieri dai sostenitori del suprematismo bianco in salsa italica? (Che già di suo fa riderissimo data l’evidente contraddizione in termini). No, perché qui a giudicare da come stanno le cose, per gli italiani è un affare tutto a guadagno. In un quarto d’ora entrano ed escono dozzine di avventori habitué italianissimi. Scherzano, ridono, parlano in dialetto con i baristi che stanno al gioco. Bevono il bianchetto come hanno sempre fatto e pagano come hanno sempre fatto. Da che parte del mondo arrivi la mano che glielo serve è un’idea davvero lontana dallo scacchiere geopolitico come lo è dalle loro gole secche. E se non è integrazione questa, tra l’altro. Con la differenza che gli orari da quel che vedo sono ora H24, punto. L’unica apprensione che dovrebbe suscitare la sostituzione etnica in corso -almeno su questo fronte- è per i poveri cristi catapultati chissà come, quando e perché a dodicimila km da casa loro, in mezzo alla bassa padana popolata da zanzare con la livrea Alitalia e pingui alticci. “Ehilà, Bruce Lee!“ dice il grassottello entrando, molto soddisfatto di sè e del suo humour. Un anno fa camminavo per cento km un anello nella periferia romana. Mi serviva e scrivevo questo. Ora sono lontano dal centro, ma mi pare il ragionamento fosse corretto.
“Centro/i, cuore/i atrofico/i della/e città. Centro, sistema sanguigno, arterie di turisti come fiumi in piena corsi fin qua a innamorarsi della bellezza eterna di Roma, della bellezza evidente. Si coagulano a piazza San Pietro. Si raggrumano a Trinità dei Monti. Sono embolo a Piazza Navona. La periferia è invece il cuore vitale, quello che pompa vigoroso per tutti e tiene su il corpaccione sfibrato e stanco di questa Roma sfatta, sfiancata. Centro e periferia, Babele in terra. Si toccano e compenetrano in un sahel antropizzato a macchia di leopardo. Marciando in fuori, il gutturale teutonico, lo sguaiato inglese, il pacato giapponese scivolano nello scivolare arabo. Si arrendono al cantilenare cinese, ammutoliscono nello strillare africano. É in corso una migrazione interna. Da fuori a dentro, su spinta di ventri secchi e borbottanti. Mai il contrario, ma è già qualcosa. Le lingue si toccano frettolose per improbabili affari. Caldarroste ad agosto. Louis Vuitton a dodici euro. Pistole spara bolle. Rifuggo il centro, non mi coagulo. Spingo la mia lingua verso il fuori, sulla raggiera delle strade consolari. Sulla Prenestina, per Tor Tre Teste, per il Quarticciolo. Rotta zero-nove-zero, verso pance affamate, succhi gastrici mai soddisfatti”