| Il sottendere al non detto di un albero mosso. Con molto dolor |

 

Ventimiglia, giovedì 07 agosto 2014
XXXIV tappa: San Remo – Roquebrune, 30 km

 La povertà di animo si affeziona facilmente alle parole sciocche e brutte.

Andrea Veneri

Ecco, lo sapevo. É successo.

Sono giorni che mi scervello su quello che avrei scritto una volta raggiunto e
superato il confine fra Italia e Francia. Chissà che cosa avrei provato. Quali
grandi emozioni. Come esprimere questo turbinio di sentimenti che cozzano fra
loro? E che risultato, per dio! 800 km!

E vabbè, ecco fatto. Oplà! E adesso?

Sarei un bugiardo a dire che il fatto mi abbia lasciato del tutto indifferente,
ma non é che sia poi così lontano dall’esser vero.

Fa riflettere mezzo secondo e fa fare due conti, questo sì, e mi strappa un
sorriso. Come darsi un’immaginaria pacca sulle spalle. “Bravo Pé!” E
finisce lì. Continuo a camminare per chiudere il chilometraggio in programma
per oggi, fin dopo Mentone. Passetto dopo passetto.

Non so dire se dipenda dal mio inguaribile nichilismo oppure da un ribellismo
tardo adolescenziale, ma il fatto é, che i conformismi, proprio mi stanno
stretti, e l’idea di dovermi emozionare nel fare un passo, prima da una parte e
poi dall’altra, di una linea squisitamente immaginaria, per me, che cammino da
un mese sulla terra e sotto il cielo e le stelle di tutti, proprio non mi
sconquiffera per niente, e mi puzza tanto di dovuto, più che di voluto.

Una particina di me continua a sussurrarmi: “Non ci cascare Pé, é una
minchiata per gonzi” Come comprarsi una maglietta con scritto I CUORE
FIRENZE sotto il duomo di Firenze. “Non farla sta foto”. Oppure I
CUORE ROMA al Colosseo. Oppure…vabbé la metafora é passata, credo.

Nel dubbio, io, lo scatto lo faccio -taci vocina!- a imperitura memoria
dell’impresa e a testimonianza di essa. Almeno per quello, che poi gli amici
non ci credono che ci sia arrivato sul serio, al confine.

Ed eccolo qui: un bel cartello con scritto Francia che a malapena si legge fra
i camper parcheggiati tutt’intorno…

Non proprio una scena da Leonida alle Termopili. Sembra più Rimini Rimini con
Jerry Calá.

L’unica consolazione la trovo nel sentiero davvero piacevolissimo che si
srotola fra gli scogli e le ville prima di attraversare i balzi rossi e il confine,
che raggiungo praticamente senza incrociare una macchina o una odiata galleria.

Pubblico questa foto e ne pubblico pure un’altra. Questo si l’avevo deciso, ed
eccola qui.

É la prima che ho scattato trentracinque giorni fa, partendo da Roma, dal mio
ufficio presso le Officine Zero occupate di Casal Bertone. Non l’ho mai voluta
pubblicare per scaramanzia.

E leggere il buffo aneddoto, quindi.

Buffo aneddoto:

vivo a Roma da quindici anni. La conosco davvero a menadito. Padroneggio
strade, stradine e molte scorciatoie da pedone e biciclettaro incallito. Il mio
viaggio, come ovvio, prevedeva l’allontanamento da Roma con quello che ciò
comporta, in fatto di stradoni e periferia. La via Francigena -quella ufficiale
dei pellegrini romei che seguirò fino a Sarzana- parte da piazza San Pietro e
io la voglio intercettare a pochi km da lì, dove parte all’assalto di Monte
Mario con una serie di rampe ripide a zig zag che tagliano un parco naturale
incantevole. Per raggiungerla partendo dalla via Tiburtina dove mi trovo,
decido di accorciare passando per il quartiere Trieste e la sconfinata Villa
Ada. Guadagnerò un bel po’ di tempo, mi dico. Conto di essere all’ingresso
della villa intorno alle sei di mattina per godermi silenzio, alba, merli e
profumo di erba bagnata e per conservare un buon ricordo di Roma, nei prossimi
due mesi.

E non vado a perdermi??? Giuro.

Mi sono perso a Villa Ada, Roma, 21 giugno 2014. Con iPhone, iPad, cartine,
google maps, tutto.

Ma non per tre minuti, eh?

Ho girato nel bosco come fosse quello di Hänsel e Grethel per almeno un’ora
buona. Giuro. In tondo. Tornavo sempre al punto di partenza.

Ora: io non sono superstizioso, non lo sono mai stato, ma essendo quelle, le
prime due ore di un cammino previsto di cinquantanove giorni, diciamo che un
pensierino ai segni del destino, alle premonizioni, ai cattivi auspici e alla
digitata testicolare, ce l’ho fatto eccome.

Stavo per demordere, giuro. “Evitiamo da subito figuracce e chiudiamo qui
il discorso” mi dico.

Poi, illuminazione.

Mi giro e alba fra gli alberi, bellissima. Luce cristallina, foglie bagnate,
ragnatele che brillano. Verde in tutte le tonalità possibili. E scatto senza
pensare. Scatto l’immagine che ora pubblico, appunto.

Ed é atipica. Per me, almeno, lo é, perché rappresenta esattamente quello che
da un paio di anni mi fa tanto ridere della fotografia contemporanea e che
trovo davvero assurdo. Forse sarà per quello che mi ci sono affezionato tanto.
Più che per il fatto che sia la prima in assoluto, di questa avventura.

Ultimamente mi trovo sommerso, infatti, da progetti fotografici
“concettuali”, o “di ricerca”, o “personali” che
mi arrivano via mail o che vedo pubblicati in giro, oppure nei premi. E sì che
io vorrei occuparmi di giornalismo…

Li guardo tutti quanti, come sempre, con grande attenzione e interesse, anche
quelli di arredo, di pubblicità e di food, visto che c’è chi me li manda, e
visto che amo la fotografia sul serio, non solo a parole, a 360 gradi da tutta
una vita.

E cerco anche di rispondere sempre a tutti, anche se qualcuno me lo perdo
sempre per strada. Cosa di cui mi scuso pubblicamente.

Però una cosa davvero non mi torna nella stragrande maggioranza dei casi. E va
bene, le mode esistono anche in fotografia, lo so, ma qualcuno mi può spiegare
perché ci finisce sempre di mezzo un alberello mosso, sfocato, all’alba o con
la nebbia. A colori o in bianco e nero. Che c’è di così concettuale? Mi
arrivano lavori sull’ Altzheimer e zac! Alberello. Violenza sulle donne?
Alberone. Ricerca sulle proprie radici e sui nonni? E che non c’è lo metti un
alberello stinfio o un cespuglio secco?

Proprio non capisco. Se vogliamo parlare di simbologia, amici della fotografia,
siamo messi un po’ maluccio, direi. Credo potremmo farlo uno sforzetto in più
fra tutti, e non essere, per così dire, sempliciotti.

Di sicuro, però, una cosa l’ho capita, bazzicando l’ambiente, i festival, le
inaugurazioni e parlando di fotografia praticamente ventiquattro ore al giorno.
La parola chiave ho scoperto essere “sottendere” che insieme alla
locuzione “al non detto” ammanta qualunque colossale cagata di
un’aura di profonda analisi critica e maturità artistica.

E ci casca un sacco di gente eh? Ça va sans dire.

E do pure una dritta: é un sempreverde, mica come materico, moderno,
concettuale, simbolico e catarsi che sono già da sfigatoni.

Il sottendere e il non detto resistono inossidabili alle angherie del tempo e
delle mode linguistiche.

E allora sai che c’é? Ci provo pure io, non me ne vorrete.

Ecco qui:

“un’immagine allegorica, pregna di simbolismo sottendente al non detto di
un viaggio che é scoperta del prossimo, del paesaggio, ma soprattutto, di sè,
anzi, del sè. L’autore definisce, in uno spazio di luce eterea , quasi mistica,
la condizione dell’uomo mediante un magistrale utilizzo di una tavolozza di
colori che spaziano dal nero dell’inconscio al giallo solare della tradizione
positivista. La vegetazione e l’albeggiare diventano così paradigma
postmodernista del rapporto/scontro uomo-natura, con l’intento celato di
decretare la fine definitiva della divinità e l’affermarsi del super io.

Tié. Ci metto pure Nietzsche e Freud. E vada via i ciap.

Titolo: “Alba su villa Ada il giorno in cui mi persi come un fagiano. Non
si vede bene, ma alberello soffre assai”.

E adesso tremiamo tutti come giunchi al vento, emozionandoci.

Ok. Finito. Mi ero ripromesso di non essere polemico.

Proprio non ci riesco.

E chiudo.

In ogni caso ci tengo a pubblicare una terza immagine che ritrae i miei vecchi
amici Elly (a destra) e Bull (a sinistra) di Ventimiglia. La loro amica (nel
mezzo), non mi ricordo come si chiami,ma é stata molto divertente e piacevole.
Mi scuserà la mancanza…

Arrivato a Roquebrune, ho preso un treno per tornare indietro verso l’Italia e
fermarmi a dormire da loro che non vedevo da almeno paio di anni e che
gentilmente mi rifugiano e rifocillano. Ogni volta é come se ci fossimo
lasciati il giorno prima, ma ringrazio questo viaggio per avermeli fatti
nuovamente incontrare.

Mi scuseranno anche loro e il gigantesco alano Ettore (in basso) se sono pressoché
svenuto sul loro divano a pancia in giù come un invertebrato preistorico.

Non credo di essere stato una compagnia travolgente, il giorno in cui ho
varcato i nazional confini…