OPPOSTA DIREZIONE – Passi e parole di ritorno a Genova
2001-2021
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Da ELISA PERAZZOLI
Ci troviamo nella sala vip dell’aeroporto internazionale di Santiago, e sembra che noi cinque siamo davvero dei vip perché ci hanno assegnato un plotone di soldati e varie guardie che vigilano sulla nostra incolumità. Ed è forse per mettere in risalto il nostro status di vip che ci tengono al centro della sala, seduti per terra con le mani alla nuca. Non è certo il modo migliore di riposarsi prima di un lungo viaggio, e i soldati ci guardano storto quando reclamiamo per la durezza della moquette e per il pessimo servizio: non ci hanno neppure offerto qualcosa da bere. Un trattamento schifoso per dei vip.
All‘improvviso una nuvola si frappone tra il sole e la vetrata, e possiamo vedere chi c‘è fuori. Loro non ci vedono, Io impediscono i vetri polarizzati. Sono i nostri familiari, i nostri amici, le nostre fidanzate che, stanchi di reclamare il diritto a darci un ultimo abbraccio, si accontentano di immaginare che ci vedono, che ci vediamo, e ci fanno dei cenni, degli inequivocabili gesti d’amore.
“Guardate quel vecchio, quello che saluta con il pugno alzato. Vecchio coglione. Non so cosa rischia”, dice uno dei vip.
In effetti dietro i vetri c’è un vecchietto mezzo pelato, impeccabilmente vestito con un completo blu e un fazzoletto bianco che gli penzola, stile guappo, dal taschino della giacca. Tiene il pugno alzato, come se avesse in mano le redini di un cavallo troppo alto. Ogni tanto si stanca, e allora abbassa la mano, compie con le dita un paio di esercizi per i crampi, e poi torna ad alzarla, il pugno stretto, arrogante, insolente e ingenuo, come se fosse alla festa del Primo Maggio.
“Abbassa la mano, vecchio minchione”, borbotta un altro vip.
“Un po‘ più di rispetto. Quello è mio padre”, dico loro.
Passa la nuvola. Ritorna il sol e stanco di luglio. Mancano due ore al decollo dell‘aereo per la Svezia. Riesco a vedere pochissimo di quanto accade fuori perché una fila di soldati si è frapposta tra quelli che vogliono salutarci e la finestra, ma un’intima convinzione mi dice che il vecchio continua a tenere il pugno alzato, e il fatto di saperlo là, dietro i vetri, separati dalla distanza minima di un abbraccio impossibile, mi porta ad accettare — e mi costa farlo — il fatto che forse ci stiamo salutando per sempre.
Non abbassare il pugno, vecchio. Non lo abbassare mai.
“La frontiera scomparsa” – Luis SepùIveda
Da SULEIMA AUTORE
Ho ucciso l’angelo del focolare. È stata legittima difesa.
“Mi accorsi che se volevo recensire dei libri, dovevo combattere contro un certo fantasma. E il fantasma era una donna, e quando imparai a conoscerla meglio la chiamai come la protagonista di una famosa poesia, la chiamai l’Angelo del focolare.
Era lei che quando scrivevo una recensione si metteva in mezzo tra me e il mio foglio. Era lei che mi angustiava e mi faceva perdere tempo e mi tormentava a tal punto che alla fine la uccisi.
Voi che appartenete a una generazione più giovane e più felice forse non capite che cosa intendo per Angelo del focolare.
Proverò a descrivervela il più brevemente possibile.
Era infinitamente comprensiva.
Era estremamente accattivante.
Era assolutamente altruista.
Eccedeva nelle difficili arti del vivere familiare. Si sacrificava quotidianamente. Se c’era il pollo, lei prendeva l’ala; se c’era uno spiffero, ci si sedeva davanti lei; insomma era fatta in modo da non avere mai un pensiero, mai un desiderio per sé, ma preferiva sempre capire e compatire i pensieri e i desideri degli altri.
E soprattutto (non occorre dirlo) era pudica.
Il pudore era ritenuto la sua bellezza più grande, i suoi rossori il suo più bell’ornamento. A quei tempi (gli ultimi della Regina Vittoria) ogni focolare aveva il suo Angelo.
E quando incominciai a scrivere me la trovai davanti alle prime parole. L’ombra delle sue ali cadevano sulla mia pagina; sentivo nella stanza il fruscio delle sue gonne.
Non appena presi in mano la penna per recensire il romanzo di quell’uomo famoso, insomma, lei mi scivolò alle spalle sussurrandomi:
« Mia cara, sei una ragazza giovane. Stai scrivendo di un libro che è stato scritto da un uomo. Sii conprensiva; sii tenera, lusinga, inganna, usa tutte le arti e le astuzie del nostro sesso. Non far mai capire che sai pensare con la tua testa. E soprattutto, sii pudica. »
E fece come per guidare la mia penna.
Ora voglio registrare l’unico gesto per cui mi assumo qualche credito, anche se di diritto il credito va dato a certi miei ottimi antenati che mi lasciarono una certa somma di denaro (facciamo cinquecento sterline I’anno?), sicché non mi trovavo nella necessità di dipendere esclusivamente dalle mie grazie per sopravvivere. Mi voltai e l’afferrai per la gola.
Feci del mio meglio per ucciderla.
La mia giustificazione, se mi avesse trascinata in tribunale, sarebbe stata che avevo agito per legittima difesa. Non l’avessi uccisa, lei avrebbe ucciso me. Avrebbe succhiato la vita dai miei scritti. Perché, e me ne resi conto subito appena impugnata la penna, non si può recensire neppure un romanzo senza pensare con la propria testa, senza esprimere quella che secondo noi è la verità sui rapporti umani, sulla morale, sul sesso. E di tutti questi problemi, secondo l’Angelo del focolare, le donne non devono parlare liberamente e apertamente; le donne devono ammaliare, devono conciliare, devono, per dirla brutalmente, dire bugie se vogliono avere successo.
Perciò, ogni volta che avvertivo l’ombra della sua ala sulla pagina, o la luce della sua aureola, afferravo il calamaio e glielo scagliavo contro. Ce ne volle per farla morire.
La sua natura fantastica le dava un vantaggio.
È molto più difficile uccidere un fantasma che una realtà.
Credevo di averla liquidata e invece eccola li di nuovo.
Benché mi lusinghi di averla uccisa infine, fu una lotta durissima; che richiese del tempo che sarebbe stato più utilmente impiegato a imparare la grammatica greca; o a girare il mondo in cerca di avventure.
Ma fu una vera esperienza; un’esperienza che doveva toccare a tutte le donne scrittrici a quell’epoca.
Uccidere l’angelo del focolare faceva parte del mestiere di scrittrice”.
Tratto dal saggio “Professioni per le donne”, pubblicato all’ interno della raccolta “The death of the moth and other essays” (La morte della falena e altri saggi 1942) – Virginia Woolf
Da MARCO ZORZANELLO
Alta sui naufragi
Dai belvedere delle torri
China e distante sugli elementi del disastro
Dalle cose che accadono al di sopra delle parole
Celebrative del nulla
Lungo un facile vento
Di sazietà di impunità
Sullo scandalo metallico
Di armi in uso e in disuso
A guidare la colonna
Di dolore e di fumo
Che lascia le infinite battaglie al calar della sera
La maggioranza sta la maggioranza sta
Recitando un rosario
Di ambizioni meschine
Di millenarie paure
Di inesauribili astuzie
Coltivando tranquilla
L’orribile varietà
Delle proprie superbie
La maggioranza sta
Come una malattia
Come una sfortuna
Come un’anestesia
Come un’abitudine
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
Col suo marchio speciale di speciale disperazione
E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
Per consegnare alla morte una goccia di splendore
Di umanità di verità
Per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
E seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
Con improbabili nomi di cantanti di tango
In un vasto programma di eternità
Ricorda Signore questi servi disobbedienti
Alle leggi del branco
Non dimenticare il loro volto
Che dopo tanto sbandare
È appena giusto che la fortuna li aiuti
Come una svista
Come un’anomalia
Come una distrazione
Come un dovere
“Smisurata Preghiera” – Fabrizio De Andrè dall’album Anime Salve – 1996
Da MICHELA BATTAGLIA
Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.”
“Novecento “- Alessandro Baricco
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l’avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
“La ginestra” o “Il fiore del deserto” – Giacomo Leopardi
Da DAVIDE LUCHINO
Voglio provare ad esistere
La mia natura è resistere
E non mi importa di perdere
Quello che mi serve adesso è vivere
Confrontarmi con la società non mi spaventa
E senza, senza limiti
La meraviglia dei miei occhi non si sgretolerà
Mi accarezzerei e mi farei a pezzi
Ancora queste mani non riescono a credere
L’immensità dei cieli azzurri
Senza la paura di cadere, di sbagliare
Senza limiti, senza regole
No, no, no, no, no, no!
(Rit.)
Voglio provare ad esistere
La mia natura è resistere
E non mi importa di perdere
Quello che mi serve adesso è vivere
Padre, mi hai detto: “Proteggi tua madre”
Ma chi rimane a proteggere me?
E mi sentivo colpevole
Tutte quelle volte che ero debole
Vita mia incantevole
Scaccia via le mie paure
E non mi importa di perdere
Quello che mi serve adesso è vivere
[Interludio]
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
No armi! No guerra, no violenza!
(no violenza!, no violenza!)
“Resistere” – La rappresentante di Lista
“La Guerra è in corso” – Franco Arminio (da Robinson de La Repubblica del 21 Gennaio 2019)
Da SOFIA LIPIRA
Libero il cane trotta nella strada
e vede la realtà
e le cose che vede
sono più grandi di lui
e le cose che vede
sono la sua realtà
Ubriaconi nei portoni
Lune sugli alberi
Libero il cane trotta nella strada
e le cose che vede
sono più piccole di lui
Pesce nei giornali
Formiche nei buchi
Polli alle finestre del Quartiere cinese
le loro teste a un isolato di distanza
Libero il cane trotta nella strada
e le cose che odora
sanno un po’ di lui stesso
Libero il cane trotta nella strada
passando pozzanghere e bambini
sigari e gatti
biliardi e poliziotti
Non odia i pizzardoni
Non gl’importa proprio nulla
e li passa
e passa i vitelli morti sospesi tutt’interi
al mercato di San Francisco
Preferirebbe mangiare un vitello tenero
piuttosto che un poliziotto duro
ma l’uno o l’altro gli andrebbero giù lo stesso
E passa la fabbrica di ravioli Romeo
e passa la Torre Coit
e il congressista Doyle
Ha paura della torre
ma non del congressista
anche se ciò che sente dire è molto scoraggiante
molto deprimente
molto assurdo
per un giovane cane triste com’è lui
per un cane serio com’è lui
Ma un mondo libero per viverci lui ce l’ha
E una buona pulce da mangiare
La museruola non gliela metteranno
Il congressita Doyle è soltanto uno dei tanti
idranti di pompieri
per lui
Libero il cane trotta nella strada
ed ha la sua vita da cane da vivere
e a cui pensare
e su cui riflettere
toccando gustando esaminando tutto
e tutto investigando
senza beneficio di spergiuro
da vero realista
con una storia vera da raccontare
e una vera coda per farlo
un vero
democratico
can che abbaia
impegnato in un’autentica
iniziativa privata
con qualcosa da dire
circa l’ontologia
qualcosa da dire
circa la realtà
e come guardarla
e come ascoltarla
con la testa sulle zampe
agli angoli delle strade
come se stesse per farsi
fotografare
per i dischi Victor
in ascolto della
Voce del Padrone
mentre guarda
come un punto interrogativo vivo
nel
grande grammofono
dell’enigmatica esistenza
con la magnifica tromba aperta
che sembra sempre
sul punto di sputare
qualche Vittoriosa risposta
a tutto
“Cane” – Lawrence Ferlinghetti. Tratto da A Coney Island of the Mind, – Un luna park della mente (1958).
Da CHIARA RUBERTI
Lungo il prato, dove un tempo pascolavano le mucche, c’era un vecchio muro. Fra le pietre del muro, vicino al granaio, cinque allegri topi cinque allegri topi di campagna avevano costruito la loro casa. Ma quando i contadini avevano abbandonato la fattoria, il granaio era rimasto vuoto. L’inverno si avvicinava e i topolini dovettero pensare alle scorte.
Giorno e notte si davano da fare a raccogliere grano e noci, fieno e bacche. Lavoravano tutti. Tutti tranne Federico.
“Federico, perché non lavori?” chiesero.
“Come non lavoro!“ rispose Federico un po’ offeso. “Sto raccogliendo i raggi del sole per i gelidi giorni d’inverno.“
E quando videro Federico seduto su una grossa pietra, gli occhi fissi sul prato, domandarono “E ora, Federico, che cosa fai?”. “Raccolgo i colori” rispose Federico con semplicità. “L’inverno è grigio.”
Un’altra volta ancora, Federico se ne stava accoccolato all’ombra di una pianta. “Stai sognando, Federico?” gli chiesero con tono di rimprovero. Federico rispose: “Oh, no! Raccolgo parole. Le giornate d’inverno sono tante e lunghe. Rimarremo senza nulla da dirci”.
Venne l’inverno e quando cadde la prima neve, i topolini si rifugiarono nella tana tra le pietre.
In principio si rimpinzarono allegramente e si divertirono a raccontarsi storie di gatti sciocchi e volpi rimbambite.
Ma, a poco a poco, consumarono gran parte delle noci e delle bacche, il fieno finì e il grano era solo un lontano ricordo. Nella tana si gelava e nessuno aveva più voglia di chiacchierare.
Improvvisamente, si ricordarono ciò che Federico aveva detto del sole, dei colori e delle parole. “E le tue provviste, Federico?” chiesero.
“Chiudete gli occhi“disse Federico, mentre si arrampicava sopra un grosso sasso. “Ecco, ora vi mando i raggi del sole. Cade vibranti come oro fuso“
E mentre Federico parlava, i quattro topolini cominciarono a sentirsi più caldi. Era la voce di Federico? Era magia?
“I colori, Federico?“ chiesero ansiosamente. “Chiudete ancora gli occhi“ disse Federico. Quando parlò del blu dei fiordalisi, dei papaveri rossi nel frumento giallo, delle foglioline verdi dell’edera, videro i colori come se avessero tante piccole tavolozze nella testa.
“E le parole, Federico?“ Federico si schiarì la gola, aspettò un momento, e poi, come da un palcoscenico, disse:
“Chi fa la neve, il prato, il ruscello?
Chi fa il tempo brutto oppure bello?
Chi dà il colore alle rose e alle viole?
Chi accende la luna e il sole?
Quattro topini, azzurri di pelo, che stanno lassù a guardarci dal cielo.
Uno fa il sole e l’aria leggera e si chiama topino di Primavera.
bouquets profumati… serenate, ce li regala il topino dell’Estate.
Il topino d’Autunno fa scialli e ricami con foglie dorate strappate dai rami.
Il topino d’Inverno, purtroppo si sa, ci dà questa fame… e il freddo che fa.
Le stagioni sono quattro. Ma a volte vorrei che fossero sette, o cinque, o sei“.
Quando Federico ebbe finito, i topolini scoppiarono in un caloroso applauso.
“Ma Federico“ dissero, “tu sei un poeta! Ti faremo una corona di alloro!“
Federico arrossì, abbassò gli occhi confuso, e timidamente rispose:
“Non voglio applausi, non merito alloro. Ognuno, in fondo, fa il proprio lavoro”.
“Federico” – di Leo Lionni
Da NICCOLO GORI SASSOLI
“Da questo distante punto di osservazione, la Terra può non sembrare di particolare interesse. Ma per noi, è diverso. Guardate quel puntino. È qui. È casa. È noi. Su di esso, tutti coloro che amate, tutti coloro che conoscete, tutti coloro di cui avete mai sentito parlare, ogni essere umano che sia mai esistito, hanno vissuto la propria vita.
L’insieme delle nostre gioie e dolori, migliaia di religioni, ideologie e dottrine economiche, così sicure di sé, ogni cacciatore e raccoglitore, ogni eroe e codardo, ogni creatore e distruttore di civiltà, ogni re e plebeo, ogni giovane coppia innamorata, ogni madre e padre, figlio speranzoso, inventore ed esploratore, ogni predicatore di moralità, ogni politico corrotto, ogni superstar, ogni comandante supremo, ogni santo e peccatore nella storia della nostra specie è vissuto lì, su un minuscolo granello di polvere sospeso in un raggio di sole. La Terra è un piccolissimo palco in una vasta arena cosmica.
Pensate ai fiumi di sangue versati da tutti quei generali e imperatori affinché, nella gloria e nel trionfo, potessero diventare per un momento padroni di una frazione di un puntino. Pensate alle crudeltà senza fine inflitte dagli abitanti di un angolo di questo pixel agli abitanti scarsamente distinguibili di qualche altro angolo, quanto frequenti le incomprensioni, quanto smaniosi di uccidersi a vicenda, quanto fervente il loro odio. Le nostre ostentazioni, la nostra immaginaria autostima, l’illusione che noi abbiamo una qualche posizione privilegiata nell’Universo, sono messe in discussione da questo punto di luce pallida. Il nostro pianeta è un granellino solitario nel grande, avvolgente buio cosmico. Nella nostra oscurità, in tutta questa vastità, non c’è alcuna indicazione che possa giungere aiuto da qualche altra parte per salvarci da noi stessi.
La Terra è l’unico mondo conosciuto che possa ospitare la vita. Non c’è altro posto, per lo meno nel futuro prossimo, dove la nostra specie possa migrare. Visitare, sì. Colonizzare, non ancora. Che ci piaccia o meno, per il momento la Terra è dove ci giochiamo le nostre carte. È stato detto che l’astronomia è un’esperienza di umiltà e che forma il carattere. Non c’è forse migliore dimostrazione della follia delle vanità umane che questa distante immagine del nostro minuscolo mondo. Per me, sottolinea la nostra responsabilità di occuparci più gentilmente l’uno dell’altro, e di preservare e proteggere il pallido punto blu, l’unica casa che abbiamo mai conosciuto”.
Carl Sagan – parlando del “Pale Blue Dot”, fotografia scattata dai confini del sistema solare in cui si vede la Terra come un “punto azzurrino”
Da SABRINA RAMACCI
Faresti meglio a correre, e correre e correre
Faresti meglio a correre, faresti meglio a correre
Faresti meglio a correre verso la città del rifugio
Stai al cospetto del tuo creatore
In uno stato di vergogna
Perché i tuoi vestiti sono coperti di fango
Mentre ti metti in ginocchio ai piedi
Di una donna di strada
Nel canale scorrerà sangue
Scorrerà del sangue!
Faresti meglio a correre, faresti meglio a correre
Faresti meglio a correre verso la città del rifugio
Nei giorni della pazzia
Fratello mio, sorella mia
Quando vi trascinano a forza verso la bocca dell’inferno
Implorerete la fine
Ma non sarete esauditi, amici
Perché la tomba vi risputerà fuori
Vi risputerà fuori
Faresti meglio a correre, faresti meglio a correre
Faresti meglio a correre verso la città del rifugio
Lavorerete nelle tenebre
Contro il vostro prossimo
E scoprirete che dovete farvi sotto
Così strofinerete e strofinerete
Ma il guaio è, compagno
Che il sangue non si lava
No, non viene via mai!
Faresti meglio a correre, faresti meglio a correre
Faresti meglio a correre verso la città del rifugio
Faresti meglio a correre verso la città del rifugio
“City of Refuge” – Di Nick Cave & The Bad Seeds – Da Tender Prey, 1988
Da MARCO CAPOCETTI BOCCIA
Della morte di Carlo l’ho saputo dalla radio.
Onda Rossa, ovviamente. La Radio.
L’ho sentito in diretta, appena tornato a casa dal lavoro. Ero da solo, nella mia stanza. E mi si è gelato il sangue. Ho avuto paura.
Paura perché stava accadendo qualcosa più grande di noi, di terribile. Mi sono messo a piangere, da solo.
Poi sono corso al Macchia dove fervevano già i preparativi per la partenza.
Stecco andava avanti nella costruzione di paragomiti e parastinchi di gomma dura come se nulla fosse. Insieme a quell’altro invasato de Samuele.
Si dividevano le maschere antilacrimogeni che abbiamo acquistato in diversi negozi poiché non se ne trovavano quasi più in città. Da giorni e giorni tutte e tutti si affannavano a comprarle manco fosse un regalo di Natale dell’ultim’ora. Noi le abbiamo prese perlopiù dalla vecchia ferramenta a piazzale della Radio che le vendeva ancora, ne abbiamo ordinate una decina. io ne ho presa una bruttina, che non mi piace affatto, ma tant’è, meglio di niente. Basta che funzioni.
Io volevo quella bianca, bellissima ma non ce n’era una in più per me. Magari me la scambierò con qualcuno dopo, al ritorno da Genova, quando molte cose sicuramente le butteremo. Ma la maschera bianca la conserverò anche fra dieci anni, cazzo.
Stecco e Samuele continuavano a tagliare e incollare come infervorati la gomma piuma bianca, brutta e sporca che temo non ci servirà a molto.
Gli altri erano tutti più o meno attoniti ma nessuno sapeva che diavolo fare.
Manco io ovviamente.
Ma son riuscito a fermare un attimo quel casino di preparativi per dire, cazzo compagni fermiamoci che stiamo facendo, che sta succedendo.
Sarah era la più lucida, aveva paura e non si vergognava di dirlo, al contrario di noi stupidi compagni.
Siamo in venti a partire da Magliana. Cazzo andiamo a fare adesso a Genova?
Abbiamo deciso stavolta di non partecipare al servizio d’ordine centrale del Network ma di garantire solo la nostra autodifesa.
Ma come ti difendi da chi ti spara in faccia?
Mi porto “il sentiero dei nidi di ragno”, non da leggere, se non alcune righe. Ma da tenere nella tasca del giacchetto o addirittura in quella posteriore dei jeans, come un libro ispirazione, ma che soprattutto mi protegga, meglio di una qualsiasi bibbia.
In tanti e tante, seppur da posizioni politiche diverse lo avevamo detto nei mesi passati, soprattutto dopo il massacro di Napoli: Genova è una trappola, non ci andiamo!
Facciamoli organizzare, blindare la zona rossa, spendere un sacco di soldi e poi lasciamoli soli ai grandi coglioni del mondo. Manifestiamo in quei giorni in tutte le città, ma non a Genova.
E invece no, siamo caduti nella trappola.
E un giovane e coraggioso compagno di Genova è morto, assassinato.
“Quarto” – Marco Capoccetti Boccia tratto da “Scontri di Piazza” (Lorusso Editore, 2019)
Da MARCO BURATTI
art.•1: La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene ad ogni essere vivente
art.•2: La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni fra gli organismi che le compongono
art.•3: La Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate
art.•4: La Nazione delle Piante rispetta universalmente i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni
art.•5: La Nazione delle Piante garantisce il diritto all’acqua, al suolo e all’atmosfera puliti
art.•6: Il consumo di qualsiasi risorsa non ricostituibile per le generazioni future dei viventi è vietato
art.•7: La Nazione delle Piante non ha confini. Ogni essere vivente è libero di transitarvi, trasferirsi, vivervi senza alcuna limitazione
art.•8: La Nazione delle Piante riconosce e favorisce il mutuo appoggio fra le comunità naturali di esseri viventi come strumento di convivenza e di progresso
“Carta dei diritti delle piante” – Stefano Mancuso, tratto da “La nazione delle piante ( Editore Laterza, 2019)
Da GIANLUCA ABBLASIO
Fort Kochi è un area poco trafficata di Kochi, una lingua di terra che si sporge verso l’oceano piena di edifici di epoca coloniale, tra cui templi di Siga, moschee e chiese, come quella di san pietro e paolo o quella di san francesco dove è sepolto l’esploratore Vasco de Gama.
È qui che finalmente incontro Rajesh. Lo vedo farsi avanti in Kurta bianco e sandali. Ci mettiamo a parlare come se ci conoscessimo già e non ci fosse tempo da perdere:non vede l’ora di spiegarmi che le sue ricerche sul theyyan acquistano senso se contestualizzate nella cornice di una lotta di trasformazione sociale, in cui ne va dei diritti delle caste inferiori, delle donne, di omosessuali e bisessuali. Il suo modello è Ambedkar, padre costituente dell’India, di origine dalit, autore di libri come “La distruzione delle caste” o “Buddha o Marx”.
In Occidente ricordiamo soltanto Gandhi, per la sua battaglia fondata sulla non-violenza che ha portato all’Indipendenza, ma Gandhi era un brahmano, non rinnego mai davvero le caste, le riteneva necessarie a mantenere l’ordine sociale. L’India di oggi è lacerata da divisioni religiose e sociali becchie e nuove, e ha bisogno di riscoprire la lezione di Ambedkar.
Il theyyam però che c’entra?
Si tratta di una tradizione antica che sta rinascendo e si sta sviluppando. I riti del theyyam, secondo un meccanismo che Rajesh paragona a quello del nostro carnevale, “canalizzano una tensione sociale repressa”. Nei testi che vengono recitati “esprime una profonda tristezza che la societa non riesce a sostenere”. Il risultato è la “performance drammatizzata di un rimorso sociale”. Questa performance può avere un effetto di catarsi, poiché realizza una “libertà temporanea” degli esclusi, che attraverso il danzatore possono protestare contro le atrocità del sistema castale, in una “ritualizzazione della protesta”. Proprio in forza della sua popolarità, il theyyam può giocare un ruolo più incisivo per sviluppare una coscienza politica di massa sui temi come l’identità di gemere e le diseguaglianze sociali.
“Il Dio che Danza. Viaggi, trance, trasformazioni” – di Paolo Pecere
Da ALESSANDRO GANDOLFI
Italo Balbo arriva a Parma attorniato da gerarchi in alta uniforme, lui stesso indossa l’impeccabile divisa da maresciallo dell’aria. E viene accolto dalle autorità cittadine in pompa magna. Mentre sfila a bordo dell ‘auto sul lungo torrente nota che le personalità vicino a lui gettano occhiate di traverso al di la del gretto e si muovono imbarazzati sui sedili della macchina. Balbo incuriosito si sporge a guardare, anche se il gerarca di fianco a lui cerca di distrarlo. Balbo ordina l’autista di fermarsi. Fissa la muraglia lungo l’argine! E quando l’auto si blocca, scende e si avvicina l bordo
Una scritta enorme, ben visibile da decine di metri di colore rosso fuoco!dice in dialetto parmigiano:
“ Balbo t’è pasé l’atlantic mo miga la perma”
Balbo avrai passato l’atlantico ma non sei riuscito ad attraversare il torrente Parma.
Eh si fu una bella soddisfazione!in pieno regime fascista, dargli quel benvenuto in città. Dicono che sul momento la prese a ridere ma poi, in privato andò su tutte le furie. Perche se è vero che era capace di riconoscere il coraggio del nemico, essere preso per il culo gli bruciava più delle sconfitte
Pino Cacucci (Copia dalle fotografie)
Da SILVIA CRIARA
C’era un paese dove erano tutti ladri. La notte ogni abitante usciva, coi grimaldelli e la lanterna cieca, e andava a scassinare la casa di un vicino. Rincasava all’alba, carico, e trovata la casa svaligiata. E così tutti vivevano in concordia e senza danno, poiché l’uno rubava all’altro, e questo a un altro ancora e così via, finché non si rubava a un ultimo che rubava al primo. Il commercio in quel paese si praticava solo sotto forma d’imbroglio e da parte di chi vendeva e da parte di chi comprava. Il governo era un’associazione a delinquere ai danni dei sudditi, e i sudditi dal canto loro badavano solo a frodare il governo. Così la vita proseguiva senza inciampi, e non c’erano né ricchi né poveri. Ora, non si sa come, accadde che nel paese di venisse a trovare un uomo onesto. La notte, invece di uscirsene col sacco e la lanterna, stava in casa a fumare e a leggere romanzi. Venivano i ladri, vedevano la luce accesa e non salivano.
Questo fatto durò per un poco: poi bisognò fargli comprendere che se lui voleva vivere senza far niente, non era una buona ragione per non lasciar fare agli altri. Ogni notte che lui passava in casa, era una famiglia che non mangiava l’indomani. Di fronte a queste ragioni l’uomo onesto non poteva opporsi. Prese anche lui a uscire la sera per tornare all’alba, ma a rubare non ci andava. Onesto era, non c’era nulla da fare. Andava fino al ponte e stava a veder passare l’acqua sotto. Tornava a casa, e la trovava svaligiata.
In meno di una settimana l’uomo onesto si trovò senza un soldo, senza di che mangiare, con la casa vuota. Ma fin qui poco male, perché era colpa sua; il guaio era che da questo suo modo di fare ne nasceva tutto un cambiamento. Perché lui si faceva rubare tutto e intanto non rubava a nessuno; così c’era sempre qualcuno che rincasando all’alba trovava la casa intatta: la casa che avrebbe dovuto svaligiare lui. Fatto sta che dopo un poco quelli che non venivano derubati si trovarono ad essere più ricchi degli altri e a non voler più rubare. E, d’altronde, quelli che venivano per rubare in casa dell’uomo onesto la trovarono sempre vuota; così diventavano poveri. Intanto, quelli diventati ricchi presero l’abitudine anche loro di andare la notte sul ponte, a veder l’acqua che passava sotto. Questo aumentò lo scompiglio, perché ci furono molti altri che diventarono ricchi e molti altri che diventarono poveri.
Ora, i ricchi videro che ad andare la notte sul ponte, dopo un po’ sarebbero diventati poveri. E pensarono: – Paghiamo dei poveri che vadano a rubare per conto nostro -. Si fecero i contratti, furono stabiliti i salari, le percentuali: naturalmente sempre ladri erano, e cercavano di ingannarsi gli uni con gli altri. Ma, come succede, i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. C’erano dei ricchi così ricchi da non avere più bisogno di rubare per continuare a esser ricchi. Però se smettevano di rubare diventavano poveri perché i poveri li derubavano. Allora pagarono i più poveri dei poveri per difendere la roba loro dagli altri poveri, e così istituirono la polizia, e costruirono le carceri.
In tal modo, già pochi anni dopo l’avvenimento dell’uomo onesto, non si parlava più di rubare o di esser derubati ma solo di ricchi e poveri; eppure erano sempre tutti ladri. Di onesti c’è stato solo quel tale, ed era morto subito, di fame”.
“La pecora nera” – Italo Calvino uscito postumo all’interno della raccolta di racconti “Prima che tu dica “Pronto’”, 1993
Da MARCO PASCHETTA
I ricercatori di Gerusalemme sono riusciti a far germogliare semi antichi di 2000 anni trovati in diversi scavi attorno al Mar Morto. Sei piante che ancora non danno frutti ma che in futuro potremmo assaggiare, per migliorare le varietà attuali
I semi del tempo
Non è il primo successo di botanici e genetisti in un’impresa del genere. Nel 2008 una pianta di palma (che fu chiamata Methuselah, Matusalemme) fu fatta germogliare. Il seme proveniva dalla reggia di Erode. Questa volta, un team di ricerca internazionale, guidato da Sarah Sallon del Natural Medicine Research Center di Gerusalemme, ha selezionato 34 semi, raccolti dagli scavi archeologici in tutto il Paese a Masada, l’antica fortezza costruita da Erode, e altri magazzini attorno al Mar Morto: Qumran, Wadi Makukh, e Wadi Kelt. Depositi agricoli, destinati a diventare un prezioso archivio del tempo.
Li hanno immersi in acqua e fertilizzante, poi piantati in terriccio sterile. E sei di quei semi hanno generato verdi germogli e le prime foglie. A ognuno gli scienziati hanno dato un nome, ovviamente ebraico: Adam, Qumran, Jonah, Uriel, Boaz, e Judith i cui semi sono stati raccolti a Masada. Hannah viene da Wadi Makukh.
La scomparsa e la riscoperta
Secondo i documenti, le palme da dattero attorno all’anno Mille, dopo la caduta dell’Impero romano e la conquista araba della regione, ebbero un declino e in questa zona erano pressoché scomparse. Questo potrebbe essere un primo passo per una riscoperta, anche se per ora le piante che sono state coltivate, non danno frutti. Ma il progetto è quello di impollinare le femmine per fargliene produrre. Oltre ad avere l’opportunità di assaggiare i succosi datteri dell’antica Giudea, si potranno sviluppare e coltivare più varietà rispetto a quelle odierne, selezionando e migliorandole anche nella resistenza alle malattie.
Il Dna “highlander”
Un’altro aspetto che ha incuriosito gli scienziati riguarda il Dna dei semi. In 2000 anni di storia si è preservato talmente bene che è stato possibile farli germogliare: “Per fare germogli il Dna deve essere intatto, il che va contro a molto di quello che sappiamo su come si conserva – ha spiegato a Science Nathan Wales archeogenetista dell’Università di York, non coinvolto nello studio – non è impossibile che ci sia che ci sia qualche sistema biologico eccezionale al lavoro che lo preserva”. Anche le condizioni climatiche della zona potrebbero aver giocato un ruolo, soprattutto il caldo secco che ha conservato così bene, per esempio, gli antichi testi di Qumran, noti come “Rotoli del Mar Morto”. A questo si aggiunge la taglia XL dei semi, in cui la maggior quantità di patrimonio genetico avrebbe reso “statisticamente” più probabile la sua conservazione.
“La palma di Masada” – articolo di Matteo Marini da www.repubblica.it del 07 febbraio 2020
Da GIORDANA CITTI
La donna magra si levò gli occhiali, guardò l’Agnese con gli occhi nudi, incantati, senza ciglia: – Pensate come volete, – disse, – ma qui i tedeschi sono stati buoni –. L’Agnese le andò vicino con la faccia: – E sono stati buoni quando hanno bruciato X..? E fucilato quei dieci a F…? E gli altri che hanno ammazzato? E se adesso ci mitragliassero tutti? – La donna magra indietreggiò: – Non farebbero niente se i “ribelli” li lasciassero in pace – disse, ma la voce era più bassa, tremava.
Alla parola “ribelli” l’Agnese vide tutti i visi lontani, i visi perduti: il Comandante, Clinto, Tarzan, Tom, Zero, il Giglio, il Cino, gli stranieri, Walter, La Disperata, Cinquecento; li rivide tutti in una sola volta, compagni combattenti, partigiani, non “ribelli”. Fece ancora due passi verso la donna, ormai la serrava contro il muro, non poteva andare più in là, le cadeva quasi addosso, con le sue grandi mani buone da schiaffi. In tutto lo stanzone il mormorio sordo ricominciò. Vicino alla donna magra un uomo s’alzò dalla paglia. Era alto quanto lei, le stava presso la spalla. L’Agnese vide contemporaneamente le due facce, quella dell’uomo scarna e precisa, e quella della donna sconvolta. Lui disse piano, senza voce, solo con il fiato: – Agnese di Palita –, e si mise un dito di traverso sulla bocca. L’Agnese disse: – Si, – anche con la testa, si allontanò subito dalla donna, concluse, fregando una contro l’altra le sue palme dure: – I ribelli muoiono per gli imbecilli.
Le fecero largo, lei camminò fra due file umane di stupore, prigioniera di tutti quegli occhi attenti. Si volse, disse più forte, con severità: – Ma quelli che restano, anche con gli imbecilli faranno i conti.
Siamo vicini alla paga, appena verrà la buona stagione. Ai tedeschi e ai fascisti non gli rimane più niente –. Il suono ruvido del suo dialetto s’allargava nel silenzio. – Disse ancora: – Mi sono sbagliata. Gli rimane la paura.
“L’Agnese va a morire” – Renata Viganò
Da ORNELLA MASOERO
Don Costanzo Demaria era curato di San Chiaffredo di Busca. Da sempre antifascista, aiutava e sosteneva i combattenti per la libertà.
I partigiani avevano ucciso un miliziano nero il 10 settembre ’44.
La federazione fascista di Cuneo si decise quindi per una rappresaglia : il 14 settembre arrivano sul piazzale della chiesa di S. Chiaffredo due camion e un’auto con una squadra. Entrano con la forza, spaccano tutto, trovano don Demaria in giardino, lo spingono a colpi di nerbo di bue sul sagrato, le nerbate gli rompono alcuni denti e le falangi delle dita mentre tenta di parare i colpi. Lo percuotono con un mitra e gli spaccano in testa un quadro del papa. Lo caricano sul camion con un ostaggio, poi partono verso Busca, catturano un altro giovane.
Ripartono alla volta di Cuneo ma, dopo pochi km, fanno scendere i tre e li uccidono con una raffica di mitra, poi scaricano altri colpi sui volti e sul cuore.
Testimoni oculari affermarono che il prete scongiuró i fascisti di risparmiare i due giovani e poi tentò di ripararli col suo corpo.
MOTIVAZIONI DELLA MEDAGLIA d’ARGENTO AL VALOR MILITARE
16 luglio 1973 dal Presidente della Repubblica e dal Ministero della difesa
Alla memoria di DEMARIA COSTANZO, nato il 14 marzo 1881 in Dronero (Cuneo)
Nobile figura di sacerdote sempre pronto alla difesa degli umili e degli oppressi, animato da vivo desiderio di operare perla libertà e per il riscatto della Patria, aderiva con entusiasmo al movimento della Resistenza.
Con gravissimo rischio personale oltre a fornire assistenza spirituale ai combattenti della libertà, dava un contributo cospicuo all’organizzazione della lotta facendo della sua casa un centro di appoggio e rifornimento delle formazioni partigiane
Catturato e seviziato, affrontava la morte con serenità e fermezza d’animo.
S Chiaffredo (Busca), 14 Settembre 1944
“Storia di Don Costanzo Demaria” – riportata da Ornella Masoero
Da FLAMINA DE ROSSI
Raccolto in un attimo il vento degli anni.