Genova, lunedì 04 agosto 2014
XXVII Tappa: Rapallo – Genova centro, 30 km
Io me li ricordo
i fatti e le parole,
l’odore del desiderio
delle belle da marito,
le corse in macchina
per Genova di pietra
Ivano Fossati – “ La bottega di Filosofia”
Genova per crederci, devi arrivarci a piedi.
Si srotola, scivola. Quasi ti crolla addosso. Caracolla. Caciarona e silenziosa
nello stesso momento. Sboccacciata e lezzosetta insieme, come fosse rimasta
bambina. Sto giro l’ho proprio fatta tutta. Tutti i borghi, sobborghi e
borghetti che sono uno scioglilingua.
PieveBogliascoNerviQuartoQuintoSturlaVernazzolaBoccadasse che nemmeno così li
impari tutti e in ordine. Sono rapito. Sto con il naso puntato in su a fondere
e confondere facciate signorili con palazzacci sovietici. Il mare li, di
fronte, sempre e comunque, come ti giri e ti giri. E poi odore di smog e pini
marittimi. Immondizia che fermata e crostacei freschi. Pesce fritto e basilico.
Cicale e clacson.
Non mi bastano i cinque sensi per decodificare tutto.
Ma sono stranamente felice, quasi euforico, perché é quello che mi aspettavo o
meglio, quello che speravo di trovare.
Perché io e Genova abbiamo un conto in sospeso, da molto tempo, come ce l’hanno
tante altre persone, ne sono certo.
Si chiama Genova, luglio 2001. Si chiama G8. Lo so che non é colpa sua e che
oggi ne soffre. Le sue mura ancora urlano, chiedono giustizia ad ogni scritta
spray, in ogni carruggio. Ma le é toccato il ruolo di palcoscenico infelice e
nessun altra città sarebbe stata in grado di essere così dura e cruda a
recitare la propria parte.
Avevo 21 anni. I capelli conciati in un modo un po’ strano. Eravamo quella
gente li, si parlava di disobbedienza civile e di globalizzazione. Di Wto e di
blackblock. Chi a favore e chi contro. Di Durban, di Göteborg, di Napoli. Si
leggeva Naomi Klein e No Logo. Non si beveva Coca Cola, pena la scomunica.
Boicottavamo. Eravamo critici negli acquisiti ed eravamo certi che ce l’avremmo
fatta. Eravamo per il subito, l’adesso, l’ora basta, il Ya basta! E mò
turbocapitalismo trema che arriviamo noi, colorati e solidali a farti un culo
così. Ascoltavamo i Cccp che era già roba dei fratelli più grandi e i Nirvana,
che Cobain già era volato via, ma non da così tanto. Si passava da Faber a un
tecno party senza battere ciglio, passando per il napoletano di Curre curre
guaglio! E poi il menestrello no global che era così no global da essere il più
global di tutti. C’era sempre qualcuno che tirava fuori il chitarrino per
cantare Clandestino! O King of the bongo e volentieri glielo avresti fatto
ingoiare, ma guai a dirlo, che eri nemico del popolo. Avevamo i cani e i
furgoni e ci divertivamo fra una pausa e l’altra che mica solo di militanza si
vive. In molti, diciamo, confondevano facilmente i due momenti, impegno e
svago. Ma bene così. Ognuno ci metteva quello che poteva. Tutti ci si conosceva
e si faceva parte della stessa grande tribù transnazionale, giusta, etica e
rivoluzionaria. C’erano il subcomandante Marcos e il Chiapas a modello. Più
modestamente gli italiani portavano un contributo con leader popolari della
caratura di Casarini e Agnoletto, triturati poi dalla storia, dal suo scorrere
inesorabile e dalla loro stessa pochezza. Il conto si faceva alla banca etica e
aspettando in fila si leggevano Carta, Diario e Internazionale. C’era la stampa
alternativa. C’erano i marxistileninisti, gli anarcoinsurrezionalisti, i
neohippies, i punkabbestia, c’era di tutto insomma.
É stata una moda? Si, penso che in buona parte sia stata una moda, ed era
totalizzante. Qualche giorno fa, parlando della moda hipster che impazza per
l’Europa, un’amica mi ha fatto notare che almeno é una tendenza gentile ed
elegante che richiede anche agli uomini, per una volta, un po’ di ricercatezza
e non di vestirsi sempre come delle capre, ma di metterci un po’ di stile. Che
interessi o meno il fashion -perché a quello si ferma, mi pare- l’appunto é
pertinente. Ed ecco, sì, se il movimento No global é stata una moda, allora é
stata una gran bella moda e le sue istanze erano di giustizia, uguaglianza,
dignità e rispetto delle persone. Di fratellanza. E buttale via. Ed eravamo
tanti, ma proprio tanti. E a molti sono rimaste appiccicate addosso quelle idee
e credo che ancor oggi facciano il mondo un posto un po’ meno merdoso dove
vivere. O l’ameno io nella mia ingenuità,ci provo, a far la mia parte.
E poi? Poi ci hanno rotto le ossa. A schiaffoni, a manganellate, e qualcosa ha
cominciato a scricchiolare. L’avevamo capito tutti. Il neoeletto governo di
centrodestra, alla prova della piazza, decise di mostrare i muscoli e
trasformare Genova in un macello cileno, un bagno di sangue rabbioso e feroce.
Statevene a casa vostra, che é meglio. Questo era. Ma noi disubbidivamo, quella
era la sfida, e alla fine uno ha pagato il conto per tutti, come sempre. Il
conto più salato.
Nel voler insegnarci la lezione, sono riusciti soltanto ad ingrossare il nostro
già ben nutrito calendario di martiri.
E noi ne avremmo fatto volentieri a meno, beninteso.
Carlo, Carletto, quanto ti abbiamo pianto. Smarriti, sbigottiti. Ci guardavamo
l’un l’altro, come padri, fratelli, madri e mogli. Come amici. Senza poter
credere che te ne fossi andato sul serio, lasciandoci soltanto un foto con gli
occhi in macchina appallati, da bestia inquieta. Tu, la tua canotta bianca e il
nastro adesivo al braccio. Immobile. Immobile a terra.
Il giorno dopo, Genova era un fiume di dita medie alzate al cielo. Tutti,
proprio tutti, a sputare rabbia, veleno, anche chi quel gesto non l’aveva mai
fatto e non lo avrebbe voluto fare mai. E quanto ti abbiamo urlato, quanto ti
abbiamo chiamato, ma niente da fare, non ci sentivi più. Sordo, muto ,cieco e
freddo anche qui, di Luglio, a Genova, e poi per sempre.
Più di qualunque urlo credo abbia potuto la mano anonima di Piazza Gaetano
Alimonda. “Piazza Carlo Giuliani. Ragazzo”, così ha scritto sulla
targa. Ragazzo, già. Perché quello eri, quello eravamo, ragazzi, e quel giorno
molti di noi non lo sono stati più e non sarebbero mai tornati ad esserlo.
E si dirà che anche nel maledetto Defender, quel giorno, c’era un ragazzo di
ventun’anni. Questo ha sempre e solo aggiunto tragedia alla tragedia. Mai ha
consolato, e comunque mi chiedo: fra un ragazzo con un estintore in mano che
sta sbagliando e uno che sbaglia in divisa e con il dito su un grilletto
d’ordinanza, chi sbaglia più forte? Non sta di certo a me dirlo, e si può dirlo
poi? Che follia.
Di contro so per certo che uno dei due é rimasto esangue e non c’è più, e a me
basta per sapere chi é stata la vittima. Sarò anche ottuso, masochista o
ideologizzato, chissà. Mi sfuggirà la visione di insieme, ma per natura sto
sempre dalla parte delle vittime. E nel caso ci avessero lasciato qualche
dubbio sul dove fosse la parte ragionevole nel tutto, ecco Bolzaneto, ecco la
maledetta Diaz. E ancora mi si gela il sangue all’idea di essermene andato da
li poche ore prima, graziato chissà da chi, ma di sicuro per una telefonata di
un amico di Treviso che non vedevo da tanto e che raggiunsi salvandomi la
pellaccia.
Genova stava lì, attonita, forse, ma sempre fiera. Ferita forse, ma mai
piegata. Austera, severa. E i genovesi c’erano. Tanti sono stati i momenti e le
storie che hanno provato a riscattarla. Ognuno di noi ne ha da parte da
ricordare. La vecchietta che mi nascose in casa e mi riempì le tasche di
merendine, oppure le bottigliette d’acqua regalate dalle finestre al corteo
accaldato. Oppure i panini o i dolciumi. Chi cercava di far ragionare i
poliziotti inferociti “Così li ammazzate! Fermi, così li ammazzate!”
L’angoscia, l’impotenza. E il ghiaccio, i disinfettanti, i telefoni, i limoni,
le garze, la biancheria, una parola, una mano. L’aiuto e il soccorso. La
solidarietà.
Genova regalava se stessa nel disperato tentativo di dirci che lei non era
così, che le era toccata sta partaccia infame, ma non é bastato. Almeno, a me
non é bastato. E credo anche a molti altri.
Genova per crederci, devi arrivarci a piedi, e a Genova, per farci la pace, ci
sono dovuto arrivare a piedi. E ora siamo senza rancori e possiamo
ricominciare, spero.
La guardo e mi guarda mentre si srotola. La stazione di Sant’Ilario dove
c’erano tutti con gli occhi rossi e i cappelli in mano.
Il ponte a schiena d’asino di Bogliasco, sulla spiaggia, con i bambini che
giocano a pallone che manco in un film neorealista.
E poi Boccadasse. Si, perché Genova ha un posto come Boccadasse dove arrivo
ormai con le ginocchia doloranti, lungo uno stretto carrugio. Sbuco in uno
slargo di sabbia, riva mare. Alcune barchette di pescatori in secca. La gente
intorno a me é senza scarpe, chi mangia, chi beve del bianco ai quattro
tavolini buttati li quasi per caso. Qualcuno legge un giornale, il tutto
sospeso in una quiete irreale da domenica pomeriggio e Genova é li a dirmi:
“Dai su, smettila di essere incazzato. Fermati, riposa, guarda me, guarda
il mare. Guarda cosa ti regalo”
E alla fine sono passati tanti anni.
Mi sa che ha ragione.
Mi tolgo le scarpe e affondo i piedi nella sabbia tiepida di fine giornata.
Appoggio il bastone al muro e faccio un respiro che mi allunga di due spanne. A
pochi metri da me, un grosso cane nero si tuffa in acqua inseguendo ogni sasso
che gli viene tirato.
Il signore di fianco a me dice: “ Belin! Pazzesco come si diverte” e
sembriamo amici da sempre.