Le Napoule, giovedì 15 agosto 2014
XXXVIII tappa: Cap d’Antibes – La Napoule, 29 km
In viaggio ci si trova sempre nella stessa situazione
di coloro che, impegnati nella lettura di un
racconto oltremodo seducente, sono colti dal
timore che possa finire troppo presto.
M. Montaigne – “Journal de voyage en Italie”
Citazione
classica e colta per due ospiti speciali del mio cammino. Mio padre e mia zia,
sua sorella. Entrambi professori in lettere felicemente pensionati. Persone di
compagnia, dalla chiacchiera piacevole, ma soprattutto grandi camminatori oltre
che robusti bevitori. Pezzi d’alpe marittima, insomma, come non se ne fanno
più. Se penso ai miei continui acciacchi da cittadino debosciato, alla mia
abbronzatura da monitor e alla panzetta da scrivania, non posso che
vergognarmi, ogni volta, al loro cospetto che per inciso, veleggiano verso i
settanta, dimostrandone almeno venti di meno. Invidia invidia.
Il nostro terzetto é un quartetto azzoppato. Manca mia madre che é stoicamente
rimasta a casa per godersi vecchiocane e vecchianonna, talmente vecchi che
mangiano entrambi come delle pantere e stanno -per fortuna- una meraviglia.
Mia madre recupererà un po’ di ferie più avanti, con le sue amiche, ma non a
piedi, bensì in bicicletta, sul lago d’Orta. Ecco, in bicicletta. Lei
preferisce viaggiare così, noi siamo più della razza camminanti, ma di sicuro
pure lei non disdegna mai una passeggiata e sarebbe felicissima di essere con
noi. Lo sappiamo.
Mio padre é con me anche per allenarsi un po’, visto che il due di settembre
partirà in solitaria per Santiago de Compostela.
Mia zia, é un’altra che non perde mai un’occasione per macinare km su sentieri
d’ogni sorta e con ogni clima, ed é difficilissimo sentirla rifiutare un
invito. Non se l’é fatto ripetere due volte; ha preparato lo zaino, le
chiacchiere, ed é partita in direzione Ventimiglia, dove mi hanno raggiunto con
il treno per farmi compagnia quattro giorni.
Ecco. Pare sia di famiglia la cosa. Forse siamo un po’ stranetti, non so. Di
certo però sono stati tutti loro in combutta ad appiccicarmi addosso questo
amore spassionato per la montagna, la natura, il viaggio, e il camminare. E non
posso che essergliene grato. Senza dubbio il più bel regalo che potessero
farmi.
(Giuro, anche il robot di Voltron mi era piaciuto moltissimo a Natale dell’88,
é vero ancora ci gioco, ma diciamo pure che stanno su piani diversi).
In ogni caso anche questa volta mi hanno dato una lezione di stile. Questo é
poco ma sicuro. E c’è sempre da imparare. Vero.
Ci rifletto mentre mio padre ordina la seconda bottiglia di rosé al ristorante.
Domani ripartiranno per l’Italia e lui non poteva mancare l’occasione di
offrirci una cenetta per festeggiare la fine della tratta, farci ancora quattro
risate insieme e mangiare a quattro palmenti.
Da giorni camminiamo sotto una canicola tremenda. Oggi é ferragosto. Abbiamo
marciato per mezza costa azzurra passando tutte le cittadelle del caso e pure
un principato riccastro, grigio e cafone. Di mio, li avevo anche avvisati che
sarebbe stata forse la parte più dura del viaggio e probabilmente la meno
entusiasmante dal punto di vista del paesaggio. Tutte passeggiate lungo mare
abbastanza identiche a loro stesse, rettilinee e assolate e anche qualche bel
pezzo lungo strada. Inevitabile, un susseguirsi di vacanzieri, bar, locali,
macchinoni e caos di vario genere. Per non farci mancare nulla, tre giorni fa,
il diluvio universale a bagnarci come pulcini.
Ma niente. Due panzer.
Passo dopo passo, sempre guardando avanti, mai indietro. A parte zia Jo, che ha
patito un po’ il caldo e due inciampi di mio padre che ora sfoggia un ginocchio
sbucciato, nulla li ha minimamente fiaccati nello spirito. Mai una lamentela,
mai di cattivo umore, mai un brontolio. Mai lo sconforto.
Il camminare é un’ottima palestra di vita e loro sono come degli atleti, che
dopo un’onorata carriera, possono passare sereni dalla parte degli istruttori,
quella degli allenatori. Dare lezioni e dispensare consigli.
Alle sventure, grandi e piccole, puoi solo che reagire. E in questo caso
facendo qualcosa di pratico, fisico e molto semplice. In questo caso puoi solo
che camminare. La testa ti verrà dietro. Deve per forza venirti dietro.
E fin qui tutto normale -se non banale- ma é solo dopo un po’ che ti accorgi
come in realtà sia il corpo a venirti dietro ed é la testa a reagire per prima.
Tu ti (pre)occupi di lui e controlli che il tutto regga lo sforzo; cuore pompa,
ginocchio muoviti, caviglia non fare male, schiena sostieni. Ma é dall’alto che
la motivazione parte, se c’é. Tu nemmeno te ne accorgi, non te ne curi
nell’immediato.
É una sottile sfumatura, ma importantissima. Una sorta di piccolo autoinganno
che ti permette di tirare avanti e portare a conclusione la tua tappa,
qualunque essa sia. Una volta scoperto il trucco, già lo padroneggi, e il
meccanismo si autoalimenta, permettendoti di raggiungere e superare traguardi
che nemmeno si credevano possibili. Qualcuno te lo deve insegnare però. Non é
così scontato e ovvio.
Questo é il motivo per il quale ho sentito infinite volte mio padre ripetermi:
“chiel lì l’è ün ca cammina cüi pè” parlando di qualche altro
camminante. Che trovo meraviglioso. Quello é uno che cammina con i piedi. Cioè
senza testa. Perché sì, si cammina con la testa, non con i piedi. Con i piedi
siamo buoni tutti. Una volta passati acciacchi, acciacchetti, vesciche e dolori
vari il corpo va, ma senza la testa, il tutto rimane lì, fermo, come un guscio
vuoto. E poi é anche un fatto di qualità ovviamente, del come si cammina. E noi
tre camminiamo di buon umore alternando grasse risate a lunghi silenzi
pensierosi.
A causa del mio stomaco, non posso bere da più di un anno, anche se mi
piacerebbe. Quel vecchio satiro di mio padre, dopo le due bottiglie di rosè
traditore, si spacca pure due Armagnac, tanto per.
Uno era il mio. Lo aspettavo da un mese.
“Tanto non lo finivi, no?”
“Ah no, no…”
Paga ci alziamo e ce ne andiamo. Ed eccoci qui, noi tre e gli zaini. Satolli di
cibo e con le gambe pesanti, mezzi barcollanti. E senza sapere dove dormire.
Dettaglio non da poco se hai camminato quasi trenta km sotto il sole. É
ferragosto appunto, e abbiamo girato come disperati per due ore in cerca di un
qualunque tipo di sistemazione. Niente di niente.
“Non ci resta che la spiaggia” sentenzio salomonico. Ci allontaniamo
un paio di km e troviamo una sistemazione che pare ragionevole. Grossa spiaggia
di sabbia a ridosso di un muretto. No vento, no luce. Sulle prime sono un po’
preoccupato, non lo nascondo. Di mio, sono in viaggio da un mese, ho trent’anni
e un altro mese di viaggio davanti. Ci sta la spiaggia. Ma loro? Rispettabili
professori in pensione alla soglia della terza età? Loro, niente. Svuotano gli
zaini di ogni indumento, si preparano due giacigli e in quaranta secondi stanno
russando. Soprattutto mio padre.
Alle cinque un trattore per la pulizia della spiaggia con un enorme faro
rischia di investirci. Mi sveglio di soprassalto che sembra una scena di
Terminator.
E loro? Loro niente.
Ridono come matti, felici come dei ragazzini mentre io invece tiro giù mezzo
calendario all’indirizzo dell’omino del trattore.
Ecco. Lezione di vita.
La mattina dopo, prima di riprendere la strada li accompagno alla stazione. Mi
aspetta l’attraversamento del massiccio dell’Esterel e per me inizia un
percorso senza riferimenti, mappe o sentieri fino a Perpignan.
Abbandono anche il mare che fino ad oggi ho tenuto fedele alla mia sinistra. A
seguirlo, mi porterebbe in Spagna, ma allungherei troppo e il 4 Settembre
voglio essere arrivato a destinazione.
Ho addosso un po’ di quell’ansia che viene quando devi prendere un volo. Quella
strana sensazione di vuoto allo stomaco. Li saluto in maniera un po’
sbrigativa. Forse.
Mentre lo abbraccio mio padre mi guarda e mi dice: “oh, mi raccomando, non
dire nulla a tua madre…”
“Eh?”
“Che abbiamo dormito in spiaggia, dico”
“…”
“Sennò non mi fa partire per Santiago”
Mi piego in quattro dalle risate mentre il treno s’allontana.
Un quarto d’ora dopo sono nel mezzo di una faggeta su un sentiero in forte
salita.