Sète,venerdì 29 agosto 2014
LIII Tappa: Villeneuve – Sète, 30 Km
“Non andare tra gli uomini e rimani nella selva!
Va piuttosto tra gli animali!
Perché non vuoi essere tu come me
un orso tra gli orsi, un uccello tra gli uccelli?”
Friedrich Nietzsche – “Così parlò Zarathustra”
Sono a Sète, ormai pericolosamente vicino alla meta. In realtà non me ne capacito di
preciso. Come sempre, mi pare di essere partito l’altro ieri. Se tutto va bene
– e tutto andrà bene- in massimo una settimana sarò a Perpignan per l’inizio
del festival Visa pour l’Image. E dopo, i Pirenei, 35 Km più in là. Il 4
Settembre ci sarà una proiezione pubblica di un progetto su Israele realizzato
da un fotografo della mia agenzia, e non mancherei per nulla al mondo. E’ senza
dubbio un riconoscimento importante per il lavoro che ho e abbiamo svolto in
questi anni, ma il vero gusto è dato dal coincidere del nostro quinto
compleanno. “Nostro” come agenzia, nata l’ormai lontano 20 Ottobre del 2009.
Auguriauguriauguri. Poi dopo, chi vivrà vedrà. Io l’obiettivo dei cinque anni
che mi ero prefissato, l’ho raggiunto e questo per me è importantissimo. E’ già
un miracolo visti i tempi che corrono. Come importantissimo sarà chiudere
questo bizzarro viaggio a piedi. Mantenere la parola data, insomma,agli altri,
ma innanzitutto a me stesso, Che si sa: uomo d’onore sono e ci tengo…
Sono a Sète, in un alberghetto dignitosissimo in centro e per due soldi. La
tramontana, si chiama. Suggestivo. Mi ha trovato una camera un angelo
dell’ufficio del turismo che mi ha praticamente accompagnato per mano
parlandomi un po’ in italiano e un po’ in francese. Devo aver fatto parecchio
pena alla signora. Le regalo una piccola, incantevole conchiglia che ho trovato
in Camargue per sdebitarmi e nel mentre penso alla razza di freakkettone che
devo essere diventato nel frattempo. Mò regalo conchiglie. Niente di male, per
carità, ma mi stupisco perchè ho sempre nutrito un animo molto più punk no
future che freak. Per intenderci, ai freak, noialtri cantavamo: “Maledetto
freakketone! L’ultima canna che vedrai sarà quella del mio fucile!” Ahahahaha,
così tanto per essere cordiali e farci due risate in compagnia.
Ad ogni modo, l’albergo è pressochè d’obbligo, visto che davvero sono esausto,
dopo giorni di meraviglioso nulla sotto il sole, ascoltando il vento, sferzato
dalla sabbia, gustando il sale sulla pelle, dormendo sotto le stelle. Sète a
questo punto, mi pare la città più cosmopolita e bella del mondo. Una piccola
Venezia della Provenza insomma. Credo di aver visto ormai una dozzina di
piccole Venezie in vita mia. Appena c’è un ruscello, tac! piccola Venezia! Va
da sé. Per raggiungere il centro, addirittura, un imponente ponte levatoio del
quale mi innamoro immediatamente e che fa passare le barchette sotto
veloci-veloci per raggiungere il porto e che mi sembrano dei giocattoli in
fila, da quassù. Saluto tutti con la mano e tutti ricambiano e lanciano urla di
saluto. Mi pare che il tutto si scosti un po’ dalla Venezia originale.
Fesserie a parte, credo di poter cominciare a tirare due somme e schiarirmi un
po’ le idee sugli insegnamenti appresi e di cui farò tesoro per la mia vita
prossima futura.
Ecco.
La sera mangio involtini da un vietnamita sotto l’albergo e rifletto.
Per forza, ogni viaggio che si affronta deve avere un punto “alto” e
un punto “basso”. Da cui punto A e B. Classico. Uno da raggiungere,
l’altro da toccare. Il viaggio come ottima metafora della vita, quindi. E
allora cerco i miei due.
Ripercorro con la mente questi cinquanta e passa giorni per strada e la scelta
si fa difficile, ma per il momento, il punto di apice, di goduria e perfezione,
lo risolvo in fretta, senza troppe esitazioni.
Qualche giorno fa, entrato in Camargue, su un lungo canale in direzione del
villaggio semifantasma di Grimaud en Salin, al tramonto, ho incontrato i miei
primi beneamati fenicotteri rosa. I flamant rose come dicono qua. Per due ore
abbondanti ho camminato a fianco di una distesa surreale di pale eoliche. Solo
l’incredibile fruscio di queste enormi girandole e il ronzare di stormi di
zanzare che mi hanno fatto a pezzi. Al primo stagno, eccoli. Eleganti e
taciturni in un controluce rosso di quelli d’Africa. Centinaia. Un incanto. Mi
sono scordato pure dei suddetti pappataci che stavamo banchettando con il mio
collo e le caviglie. Non nego che è stato un incontro commovente e che,
soltanto arrivato fin lì, mi sono accorto come da due mesi, non aspettassi
altro. I fenicotteri. Il punto alto appunto, quello che ti mette in pace e ti fa
capire che sì, ne valeva la pena, anche solo per quei pochi minuti di vita
vissuti a guardare la luce che cambia su dei fessi pennuti rosa ignari di te
medesimo e del tempo che scorre. E immuni alle zanzare, evidentemente. Non deve
essere per forza qualcosa di trascendentale o mistico, basta poco. Come i
piccoli gesti nella vita,
Per il punto basso invece, la medaglia dell’infamia tocca a Pietrasanta in
Toscana, vicino a Forte dei Marmi.
A Lucca mi ha raggiunto Francesca, un’amica camminante di Torino in allenamento
per Santiago. Compagnia ottima per tre giorni e camminatrice infaticabile.
Grandi cantate e risate in abbondanza, oltre un bel paio d’ore passate a bordo
di un fontanile in mezzo al nulla, con i piedi a mollo, nella più totale
pigrizia a chiacchierare con due signore di lì, che ci invitano pure a un
compleanno la sera. Invito che dobbiamo purtroppo declinare. Tappa lunga e
impegnativa, ma quello è norma, senonché ci perdiamo nel fitto di un bosco con
il buio inoltrato già da un po’. Sentiero che si perde, salite e discese
scomode, cani che ci abbaiano contro, rumori non meglio distinguibili di bestie
che potrebbero essere tranquillamente cinghiali. Avanti e indietro mille volte
senza ritrovare la strada e con le gambe letteralmente a pezzi. Quando
finalmente troviamo quella giusta, convinti di essere praticamente dietro
l’angolo, scopriamo che mancano ancora almeno otto km. Il che vuol dire più di
due ore camminando spediti e sono le dieci di sera. Ecco lì, sconforto vero.
Incazzatura, rabbia, nervoso, porco di qua e porco di là. Ma chi cazzo me l’ha
fatto fare e via discorrendo. “Non dovevamo fermarci per due ore a
cazzarare”. Ma quello è ancora niente. Appena mi sfilo lo zaino per
prendere dell’acqua, mi accorgo che –argh- il mio cappello -argh!- non è più
legato dove dovrebbe essere –argh!!!- e l’ho quindi perso. Arrrrghhhhh! Punito
insomma.
E uno dirà: e sticà, è solo un cappello!. E no! Manco per niente! Chi cammina
tre cose tiene preziose, oltre le scarpe che ha addosso: l’acqua, il bastone e il
cappello. Il mio mi seguiva da quindici anni. E quindi via con i cattivi
auspici. Sarò mangiato da un cinghiale, sarò mangiato da un cinghiale…
Alla fine invece arriviamo sani e salvi anche se stravolti e troviamo pure
ospitalità. E per festeggiare ci mangiamo un’orribile pizza che ci pare la più
buona del mondo con fuori un vero diluvio universale scampato per un pelo. E
quindi non è andata manco così male….
Mentre mangio un dolce vietnamita rifletto.
Che il punto “alto” sia da raggiungere e quello “basso” da toccare, già la dice
lunga su quelli che sono i meccanismi interiorizzati del mio quotidiano. E
probabilmente, dei più.
Potrò anche sbagliarmi, ma quando ci penso, sento un odore di retaggio
religioso, che arriva da molto lontano.
L’alto si deve guadagnare, meritare con fatica e spesso con sacrificio. Un
sentiero in salita.
Il punto basso invece, è il fondo, E lo si tocca in mezzo secondo. Si scende,
si sprofonda per raggiungerlo. Come su un’autostrada in discesa.
Mi pare ci sia poco da discutere sul fatto che il sottotesto sia
intrinsecamente legato al divino e non é un caso infatti che Lui, ci guardi da
lassù fra nuvolette e puttini mentre il bruttone tentatore da laggiù, fra
forconi, nuvole zolferine e urla di dannazione. Pare dunque, una catechesi ben
riuscita. La rettitudine e il premio che ne comporta, costa fatica, mentre il
peccato con ciò che ne consegue, é dietro l’angolo. A portata di mano.
In ogni caso il tutto era già stato sagacemente sintetizzato dallo scrittore
norvegese Knut Hamsun: “Un caso che finisca bene é Provvidenza, un caso che
termini male é destino”.
E non fa una piega.
Pago un conto vietnamita e rifletto.
Dato l’utilizzo partigiano che si può fare delle parole provvidenza e destino e
che la massima del premio Nobel svela e mette in luce, mi ritrovo comunque a
disagio, sia in una categoria come nell’altra, per giustificare il caos di
eventi che si susseguono tutto intorno a me.
Ho sempre avuto un debole per la parola fato, invece, anche se in buona
sostanza é un sinonimo di destino. Senza saper spiegare il perché, mi mette
l’animo in pace su questa annosa questione, fra razionale e illogicità.
L’ho sempre trovato più classicheggiante, omerico, e in finale, poetico.
Diciamocelo, l’idea di una predestinazione nella vita, a suo modo, fa fico,
soprattutto se ti é toccato l’avere dei superpoteri, salvare il mondo, e
conquistare una co-protagonista manza da far spavento.
In camera consulto la Garzanti che recita: Fato: necessità ineluttabile che
determina gli eventi della vita.
E allora sì, credo di essere un fatalista tutto sommato.
Il vivere é un susseguirsi di eventi più o meno gradevoli. Il segreto sta nel
ricordarsi sempre che, a quelli brutti seguiranno i belli, concentrarsi su
questi, e non il contrario (mettetevi comodi ragazzi, che perla di saggezza!).
Ai cappelli persi seguiranno sempre fenicotteri. Questo sarà il mio motto da
stasera in avanti. Magari un po’ complicato da spiegare, me ne rendo conto.
Guardo la strada dalla finestra aperta. Sarebbe il momento perfetto per una
sigaretta, ma non mi dispiace aver smesso alla fine. L’aria é tiepida e le voci
si diradano. Quattro musicisti gitani suonano ancora una volta Besame mucho per
i pochi rimasti.
La tentacolare Sète si appisola sotto di me, mentre un signore vietnamita
ritira dei tavolini vietnamiti dal marciapiede.