È passato un mese dall’arrivo a Roma, 24 novembre 2024.
55 giorni di viaggio, per 43 tappe. 1022 km a piedi fra Cuneo e Roma, disegnati, sognati, percorsi e mappati da un piccolo gruppo di persone che, a macchia d’olio si è ingrandito oltre ogni speranza, fra tutte le amiche e gli amici che hanno sposato la causa della Nona Casa, sostenendola nei modi più diversi.
È cambiato anche anno nel frattempo.
Vediamo se cambia anche l’utilizzo della violenza come strumento possibile, nella cassetta degli attrezzi di tutte le persone che sentono di avere le questioni piu disparate da risolvere. Come tutti.
La violenza è verbale, psicologica, economica, digitale, non solo fisica. La pratica della violenza quotidiana, su larga scala, è quella che permette, concede, legittima il recinto infernale di Gaza, la follia schizzoide dell’Ucraina, il nuovo vento democratico che soffia sulla Siria. Tutto il bel mondo di conflitti come lo abbiamo apparecchiato. Da sempre, si dice.
Ecco, uomi e donne liberi e libere, giuste e giusti, vediamo un po’ di smetterla con la storia che intanto siamo “animali”.
Vediamo di smetterla con i piagnistei e le costernazioni da manuale. Le vibranti indignazioni da tastiera. Diventiamo persone serie, assumiamoci la nostra parte di responsabilità e ragioniamo su quello che diciamo, facciamo e anche solo pensiamo prima di agire, per poi tenere le mani comunque al proprio posto.
Di seguito i tre articoli integrali, che ho avuto il piacere di pubblicare sulle pagine de La Stampa. Grazie al direttore Massimo Mathis e grazie alla collega e amica Ilaria Blangetti.
Per chi avesse voglia di leggerli.
E buon anno.
Le ragazze e i ragazzi della seconda superiore di Bra messi di fronte a noi saltellano sul posto, nel mezzo di una piazzetta defilata dal centro. Primo freddo che tutti, fingiamo del tutto inaspettato.
Il più incauto di loro indossa ancora dei pantaloncini da basket. Come gesto scaramantico, penso. Oppure virile, chissà. In ogni caso, anche se con grande eleganza, batte i denti foderato di pelle d’oca.
La cittadina nel basso delle colline, avvolge tutti in una mattinata da memorialistica partigiana, con una foschia che di mio invece, devo andare a ripescare dritto dai ricordi di adolescente cuneese di meta anni ‘90.
Siamo all’inizio del viaggio, seconda tappa de “Il Cammino della Nona Casa”. Un viaggio a piedi di 900 km che dagli uffici della cooperativa Fiordaliso di Cuneo porta a Roma, ideato per raccogliere i fondi necessari alla ristrutturazione di una casa protetta per donne e minori vittime di violenza, ma anche e soprattutto, un’iniziativa errante di sensibilizzazione e divulgazione circa l’emergenza della violenza di genere.
La classe sa il perché del nostro essere qui. Le ragazze ostentano sicurezza, preparate e attente sull’argomento, come giovani donne obbligate da subito a dover ragionare dei propri diritti.
Molto più dei loro compagni che invece ridacchiano e si spintonano, incastrati in quell’età faticosa per la quale, qualunque domanda posta ad un adulto, li imbarazza. Goffi di fronte agli altri maschi del gruppo, sminuiti nelll’idea stessa che hanno della propria confusa virilità, per ragioni ancora tutte da chiarire. Eva, operatrice antiviolenza, lo sa bene e intuisce al volo. Visto che è proprio per quelle ragioni tutte da chiarire, che siamo qui. Che abbiamo camminato fino qui, per parlarne con loro. Prima che i professori richiamino all’ordine, lei li porta dritto a ragionare insieme su quelle che la pedagogista Irene Biemmi chiama “gabbie di genere”. Tutte quelle abitudini sociali, i costrutti, gli usi e costumi che fin da quando sono bambini, creano il recinto entro il quale muoversi in quanto bravi “maschi” e brave “femmine” nel rispetto di un’idea di genere che sia conforme e funzionale. Il papà ha la cravatta e fa il poliziotto. La mamma, la gonna ed è casalinga.
Che a spiegarglielo, che a parlare di violenza agita sulle donne, sia una donna, noto come rientri difatti e del tutto, nell’orizzonte degli eventi. Che anche un uomo possa occuparsene, li lascia invece più perplessi – forse diffidenti – perchè, come ovvio, se qualcosa può giustificare la mia presenza al fianco di Eva in questo progetto un po’ pazzerello, è l’indubbio ruolo da body guard. La scorta per la minuta e incosciente compagna di viaggio, che da sola, non sarebbe arrivata nemmeno alla prima frazione fuori dal centro storico. Anche perché, come noto, le donne non sanno nemmeno leggere le carte geografiche.
Forse è anche per questo motivo che alla fine la domanda sul “perchè” abbiamo deciso di viaggiare proprio a piedi viene rivolta a me e non a lei. Decido allora di lasciar perdere l’amata argomentazione metaforica del cammino come percorso lungo, lento e accidentato del tutto simile a quello che una donna deve affrontare per uscire da una dinamica di violenza subita. Di certo molto romantico, ma improvviso per spiazzarli e portarli sul tema “gentilezza”.
-Perchè camminare è un gesto gentile – gli dico. -Ci si può fare la guerra è vero, ma quella è una stupida eccezione- Eva di fianco a me, annuisce.
Il cammino è in primis un gesto di pace, di messa in relazione e di scambio o trasmissione di conoscenze. Ecco perché camminiamo. Strumento per la comprensione di sé, dell’altro, delle comunità e dei territori che attraversiamo ponendoci in ascolto. Nella speranza che ci venga offerta dell’acqua da bere, quando assetati. Cosa che quasi sempre, per magia capita, in un mondo che scopriamo ancora essere molto piu gentile di quanto nemmeno sospetti. E visto che a tutti tocca essere viandanti prima o poi nella vita, questo insegna molto sul come si possa decidere di stare al mondo da persone gentili. Persone giuste, che rifiutino la violenza come mezzo coercitivo o di risoluzione dei problemi con il prossimo. Sia essa paicologica, fisica o economica.
Un prossimo che solitamente è, guarda caso, più debole o in condizione di fragilità.
E problemi per i quali quasi sempre si presentano soluzioni alternative a quelle violente.
E poi il camminare coincide con l’idea stessa di libertà, un gesto primigenio che non prevede appartenenze, meno che mai di genere, esattamente come lo è la pratica della gentilezza.
Tocca soltanto decidere se adottarla o meno. Se essere liberi per essere giusti. Ma alla,fone, il non farlo è sempre un gioco a perdere per tutti, in cui nessuno guadagna mai niente.
La classe ascolta assorta con labbra che vanno dal blu al viola. Lo sguardo di supplica del giocatore di basket ci riporta alla concretezza di un termometro in crollo verso lo zero.
A parte il freddo e i polpacci lividi, speriamo di avergli almeno confuso ulteriormente le idee.
Nuvole di fiato bianco durante l’applauso di rito. Salutiamo, inforchiamo gli zaini e ci rimettiamo in cammino su altre colline verso est.
Dopo dieci anni a piedi ad esplorare il paese lungo rotte più o meno conosciute, credo di aver capito una cosa del come funziona. O almeno, come funziona per me. Prima di ogni ripartenza esiste un momento preciso di consapevolezza che diventa slancio verso l’avanti. Una specie di velo che si squarcia sul motivo profondo del perché uno decida di infilarsi in questo genere di avventure. E solitamente mi assale alle spalle. Una vertigine che prima atterra e poi esalta, come per un rilascio inaspettato di endorfine.
Ultimi ritocchi allo zaino in camera e mi capita di buttare un’occhio al comodino. Mezza dozzina di libri iniziati mi fissano, impietosi. La sovraccoperta opaca, un pigiamino di polvere sottile, ne accresce la mestizia. Di riflesso guardo la libreria ricolma di dorsi ordinati, archiviati una volta finiti. Insieme a quaderni, cartelline, fotocopie, ritagli. Tutta la mia vita di lettore complusivo. C’è chi direbbe una collezione “vivace”. Io propendo più per lo “schizzoide”, ma questo non c’entra. Ho letto, studiato tanto per buona parte della mia vita. Poi ho smesso, o quantomeno ho dovuto ridurre di tanto. Così di colpo e senza grandi drammi perché “così è” a quanto pare, ma quando sia capitato e il perché, non rientrano negli eventi registrati dal sismografo esistenziale. Semplicemente è successo, e basta. Come se la somma dei miei incontri, le esperienze, studi e letture, ad un certo punto avesse raggiunto il fuori scala, il troppo pieno. Ed eccomi qui in faccia al mondo, come adulto consapevole, formato, con le proprie incrollabili certezze per constatare quanto sia difficile alimentare la fiammella della curiosità e del pensiero critico. Quanto sia complicato, invecchiando, rimettersi in discussione e avere la voglia di trovare spunti intellettuali per farlo. Una specie di fatica – o di paura – nel poter perdere il proprio status quo conquistato con grande fatica.
E allora ecco all’improvviso il perché del “Cammino della Nona Casa”. La ragione profonda per la quale non ci ho dovuto pensare due volte per buttarmici dentro, investirci, tempo, idee e energie, per ritrovarmi ancora una volta a preparare lo zaino giudicato da una mezza dozzina di libri che mi fissano dal comodino.
A ben pensarci l’unica parola che fa rima con questo viaggio è “imparare” a differenza di molti altri del passato per i quali la vocazione era “comprendere”
Perché di violenza di genere ne sento parlare come tutti sempre di più ogni giorno, ma in fin dei conti ne so davvero poco. Non mi pare di avere affrontato l’argomento in età scolare e le mie letture si fermano a un generico reparto “non violenza”. La mia è una famiglia per bene, pacifica, attenta e sensibile, ed episodi di violenza nei paraggi, mai registrati. E però, però, però…
Per ogni nuovo orribile titolo di cronaca nera, delego, come quasi tutti, ai giudici, alle forze dell’ordine, ai medici, alle operatrici e agli operatori. Al massimo, a non meglio specificati tecnici. Digerisco come assodato e ineluttabile il neologismo “femminicidio”, ma di certo non mi sento di far parte della partita, grazie ad un atteggiamento autoassolutorio, che solo mentre cammino verso Roma mi accorgo di avere acquisito in maniera del tutto incolpevole Semplicemente, non sono un uomo violento e quindi la cosa non mi riguarda. Ma è proprio così? A quanto pare per la maggior parte dei maschi lo è. Quasi tutti posti di fronte alla questione reagiscono allontanando da sé il problema, perché tutto appannaggio del genere femminile, che qualcosa prima o poi dovrà pur escogitare per smetterla di farsi decimare così.
Ma visto che sono sempre uomini ad agire violenza, forse qualche domandina, come genere tutto, dovremmo porcela. Una riflessione, anche piccola, farla.
E il punto sta proprio lì. Me lo insegnano tutte le persone, uomini e donne, le associazioni, i gruppi che il cammino ci sta portando ad incontrare, oltre alla mia compagna di viaggio Eva, che con grande pazienza, mi spiega come stanno davvero le cose. Tutte quelle che ignoravo e quelle che ancora ignoro. Scopro per esempio che il famoso patriarcato è un atteggiamento che non fa bene a nessuno, in primis ai maschi e che tutta una serie di abitudini sociali hanno portato a porre l’uso della violenza, nell’orizzonte degli eventi possibili. Anzi peggio, a darla per scontata. Discorso lungo e complesso certo, pieno di sfumature che toccano anche lo psicologico e l’economico, ma non più derubricabile al solito machismo latino. Con la solita solfa dell’uomo che deve appagare i propri istinti animaleschi, che fa acqua da tutte le parti.
Ma imparo anche tanto dall’anziano signore che al bar di orio Litta ci dice che sua moglie, “è un peccato che sia morta, perché era “utile”. Imparo dal ragazzino barricadero a Pavia che ci dice che “lui è per l’equità dei diritti fra uomo e donna ma non è femminista” senza capire che proprio di quello si parla, e non di eguaglianza biologica. Imparo dal signore di Piacenza che ci dice che lui è “misogino perché sua moglie lo sgrida di continuo” ma anche dal barman a Fiorenzuola che non si capacita che io beva birra senza glutine mentre ad Eva piacciano birre stout, che sono da maschi.
Di lavoro da fare ce n’è ancora tanto. Se le donne da almeno cinquant’anni sono state obbligate al confronto circa le proprie difficoltà, paure, fragilità, in cerca di solidarieta e autoaiuto, il maschio ancora nemmeno intravede la necessità di affrontare il problema con altri maschi. A farlo rischierebbe di scoprire emozioni poco virili, fra le quali deprecabili paura, frustrazione per imparare a gestire rabbia e rancore
Anche di cammino ce n’è ancora tanto da fare. Ripartiamo in direzione Modena e Bologna, ma almeno questo dovrebbe essere tutto in piano.
Raggiunta la metà del viaggio, credo di poter ormai svelare come sia andata veramente.
Quando Eva a febbraio mi ha parlato per la prima volta della Nona Casa ricevuta in eredità dalla cooperativa per essere destinata a casa protetta per donne e minori, me ne ha parlato come di un dono generoso e commovente. Soltanto dopo un attimo si è rabbuiata al pensiero di tutte le risorse necessarie per renderla confortevole e sicura per le madri con i loro bambini. Tutte da reperire. Anche solo per istinto, non potevo che gettarmi nella mischia. Ho subito offerto alla causa le mie grandi e indiscusse capacità di carpentiere. So tinteggiare, mettere giù le mattonelle in bagno, trafficare con l’impianto elettrico e con i tubi. Ma con mia grande sorpresa e un malcelato disappunto, l’offerta è stata declinata con un gentile, “grazie, come se avessimo accettato”. Inutile dire: quale ingratitudine. Va altresì detto però, che da lì, per la fortuna della casa e di tutti e tutte, nasce l’idea di un cammino antiviolenza da Cuneo a Roma. Nello stesso preciso momento durante il quale ho imparato la prima lezione, su tutta la questione della violenza di genere che mi ha poi seguito per i nove mesi successivi. “L’immagine, la metafora del cammino, potrebbe essere davvero forte. Potrebbe funzionare, insomma” mi ha detto Eva icon la Presidente di cooperativa Giulia al suo fianco, ad annuire. “Devi sapere che l’immagine che più usano le donne che ospitiamo nelle nostre case protette, una volta trovato modo e coraggio di iniziare l’uscita dalla spirale della violenza domestica, è proprio quella di un cammino”. Ammetto che la cosa li per li mi ha stupito, ma poi a pensarci bene, il senso profondo e la connessione fra le due cose, è evidente. “Un cammino lungo, faticoso, pieno di inciampi e di imprevisti. Su quella che più che una strada precisa, è un traccia, un sentiero da saper leggere e a volte, anche, saper perdere”.
Esattamente come quello che abbiamo percorso fino qui a piedi io ed Eva, a Firenze, con buona parte dei capoluoghi in programma, raggiunti e superati attraverso quattro regioni, scansando un paio di alluvioni e pezzi di Via Emilia che a piedi prendono il vago sapore di gesto suicidari, ma ripagati da degli Appennini autunnali da fiaba.
Penso che proprio l’ immagine evocativa del cammino abbia convinto la cooperativa ad investire in questo genere di operazione, alla luce anche di tutta la sua potenzialità nel poter creare una rete fisica, in prima persona con altre realtà, per lo scambio di buone pratiche con le amministrazioni, la sensibilizzazione, il lavoro con i ragazzi delle scuole. Andare a bussare alla porta delle persone per parlare, come si faceva una volta, aperti a tutto quel “resto” che il cammino puntualmente offre, nel bene e nel male.
Mentre in questo frangente, l’enorme potere “empatico” della pratica del cammino invece, l’avevo forse sottovalutato. O l’avevo dimenticato.
Da quando siamo partiti più di un mese fa infatti, non fanno che pioverci addosso riconoscenza e ringraziamenti.
“Grazie” è la prima parola che ci fa da colonna sonora. Quasi ci fossimo fatti portavoce delle istanze di una miriade di persone e realtà che sui diversi territori, non chiedono altro se non di poter lavorare bene e in santa pace, cin maniera curiosa, creativa e proattiva verso il resto del paese. Tutte persone che vedono nel nostro sforzo fisico, nel sudore, nel disagio di uno zaino pesante e a volte di notti scomode, l’impegno concreto e la stanchezza che consegue alla lotta, al raggiungimento di un obbiettivo ambizioso che gli risuona come famigliare. Non a caso la seconda parola che ci accompagna da un mese è “fatica”. Ma non la nostra. La loro. Quella che pronunciano mentre visitiamo una casa antiviolenza, o ci illustrano un centro per donne, oppure mentre chiacchieriamo bevendo un caffè al bar. Che fatica. E siamo noi che dobbiamo ringraziare, altrochè. Almeno, io.
Che fatica lavorare su un tema cosi complesso, con così poche risorse. Che fatica portare avanti una battaglia culturale così spigolosa come quella contro un modello patriarcale vetusto, duro a morire. Che fatica dover ripetere migliaia di volte le stesse cose in risposta ad esternazioni medievali di alcune parti della politica. Che fatica il luoghi comuni e le chiacchiere da bancone sulle donne fatte da uomini solitamente bianchi etero e anziani, in televisione in prima serata. Che fatica raccogliere in giro pezzetti rotti di donne con un cucchiaino. Che fatica le sconfitte.
Però anche che incanto. Che coraggio, che forza. Le tante vittorie. Il riscatto. La riconoscenza nel vedere fiammeggiare gli occhi di Valentina, di Anna, di Alessandra e tutte le altre operatrici. Che non mollano. Vedere sorridere Natasha, Silvia e Giovanna a fine giornata, anche se esauste. Abbracciare Anna Paola dopo che decide di raccontarci il suo personale inferno di maltrattamenti proprio nel giorno in cui le porte della cella si chiudono alle spalle del suo ex compagno.
Già, perché ci sono poi tutte le donne immerse nel loro di cammino che incrociano il nostro. Impegnate nel loro di percorso lungo e accidentato di uscita dalla violenza. Loro sono le prime a buttarcisi al collo e a dirci “grazie” appena ne hanno modo. E in breve a dire “che fatica”. Quelle che con stupore scopre riconoscenti e che la nostra bella metafora poetica se la vivono in prima persona fra realissimi pugni e cazzotti. Fra ricatti, paura e senso di impotenza. Pezzetti di donna da rimettere insieme per avere di nuovo una persona.
Anche da Cuneo giunge la loro vicinanza e solidarietà. Dalla partenza una marea continua di donne chiama Eva sul cellulare di lavoro. Manco avessero organizzato dei turni. Donne aiutate negli anni da lei e dalla cooperativa e che ora ricambiano e si preoccupano. Vogliono sincerarsi che mangi abbastanza, che non abbia troppo mal di schiena. Che la notte dorma al sicuro e al caldo. E che io faccia il mio fatto bene, ora che sono giunto a metà del viaggio, giusto in tempo per rendermi conto per davvero dell’enormità del lavoro di Eva.
E per inciso non deve stupire che quando è il mio cellulare a squillare, sono i miei genitori che chiedono notizie di Tumpi. Giusto così.