Zingari e re

Sansepolcro (AR), 08 Settembre 2020
Giorno di riposo

Anjui ha un nome che ancora non ho capito come si scriva. Joseph è più facile. Barba rossa su faccia sveglia. È lui dei due ad attaccare bottone. In un attimo una bottiglia di grappa si materializza fra le mani di lei e plana sul tavolo.

È figlia di hippie, nata a Goa da padre girovago che trovando stretta Umbertide se ne partì per l’India. Altri tempi, oh sì. Urla e urla felice come una pasqua sotto il patio del ristorante, un tono della voce insostenibile, ma adorabile. Capelli lunghi pronti alla ribellione, come il suo cuore scombinato e caciarone. Occhi blu tagliati da gatto. Parla hindi e pure un dialetto. Mentre Joseph tenta timidamente di contenerla lei ci propone un repertorio di trucchi magici con gli stuzzicadenti. Ci parla della sua famiglia. Altri nomi impronunciabili.

Manco a dirlo la sua casa di Umbertide è aperta ai viandanti. Venite a trovarci! Con il padre arrivato a Goa a piedi, la questione del nostro cammino non la tange minimamente. Contemplato come normale nel suo orizzonte arruffato degli eventi. Comprende per istinto quello che stiamo facendo. Non la stupisce in nessuno modo, il che la mette al riparo dal porre domande inutili, superficiali. Anzi, a ben vedere, le frega anche poco, profeta del più sano dei vivi e lascia vivere. O dello sticazzi, a gusto.

Con una storia del tutto diversa dalla sua alle spalle, non posso però che essere naturalmente portato ad empatizzare con il suo stare al mondo.

Penso.
Puntuale e inevitabile l’erranza porta a sedersi con le persone più diverse.
L’importante è saperci stare. Siano zingari o re, come si dice.
Accomodarsi comodi e capire cosa sia lecito o no per i commensali. Cosa sia opportuno o meno.
Credo sia una piccola fortuna non trovarsi mai a disagio. E uso il trucco più onesto del mondo: essere onesti.
Onesto, uomo fra gli uomini racconto quello che ho da raccontare sperando interessi. Ma soprattutto per mettersi in ascolto, aspettare che gli altri dicano. Faccio domande.
Perché ogni persona ha voglia, ha bisogno di raccontarsi. Prova piacere nel farlo. Magari in maniere differenti fra loro, ma è così. È un piccolo vezzo innocuo. Una deliziosa debolezza umana.

Joseph e Anjui sono principi nel loro. Parlano e parlano come vecchi amici, con lui che pende dalle sue labbra e lei che lo prende un po’ in giro.
(e tu l’avresti capito bene e molto prima di me. Avresti riso con le lacrime agli occhi e alla fine li avresti abbracciati entrambi dopo avergli parlato di Walter Bonatti)

Il tavolo dietro il nostro da segni di nervosismo. Salotto buono. Joseph glielo fa notare, si scusa.

Anjui o come si scrive, allora si gira e con tutta la semplicità del mondo gli urla addosso:
– Scusate, ma che sto urlando? – E io muoio.
Poi alzando la voce si giustifica – è che mio padre è sordo –
Casco sotto il tavolo.

Alla fine non ho capito l’età né di una né dell’altro, e anche chi se ne frega.
Ci salutiamo. Ce ne andiamo, Sarah,  Fabia e Claudia qualche passo davanti a me, in salita nel taciturno di Sansepolcro che sembra disegnata dalla notte.
Joseph dalla barba rossa mi dice ancora – Io non posso che adorarla- In confidenza, da uomo a uomo.
Io vi adoro entrambi, ma non ho il coraggio di dirglielo. 

Perchè se ogni persona è un labirinto, è sempre e comunque la tappa di un percorso.